amorino alato

amorino alato
C’era in lei, tuttavia, un angolo segreto dove non arrivava il riverbero di nessuna luce. Da lì veniva quella voglia di tenere a bada il corpo e la materia che gli dava forma; lì fluttuavano profumi intensi e dolcissimi, e fruscinìo di sete leggere e il seno bianchissimo di Rosa la Parda. Lì, coltivava il giardino di un’altra vita che ogni tanto, a occhi chiusi o nel sonno, andava a visitare.(Amore Anomalo - daniela frascati)

lunedì 20 dicembre 2010

una bella e intrigante recensione ad AMORI ANOMALI di alessia-e-michela-orlando su napolimisteriosa-autori.blogspot.com

CIESSE Edizioni, collana GREEN; anche in versione e-book
Anteprima e acquisto qui:



Mentre rileggiamo ciò che abbiamo scritto, qualche attimo prima della pubblicazione, sovviene alla mente un paradosso: quello noto come  "del cartello" o "del biglietto" (di P. E.B. Jourdain, 1913). Si tratta di un cartello sulla cui faccia anteriore è scritta la frase:
"Quello che c'è scritto dietro è falso."
E sulla faccia posteriore si legge invece la frase:
"Quello che c'è scritto dietro è vero."

Questo è il gioco in cui ci ha trascinato DANIELA FRASCATI. E vogliamo giocare, vogliamo leggerla.


Capitolo I: introduzione al personaggio e al libro. Le prime domande.





Nella scheda del suggestivo libro di Daniela Frascati, leggiamo di storie anomale, di povertà affettiva, nonché di magia, misticismo e suggestione che  "entrano con prepotenza in questi cinque racconti costruendo paradossi al limite e, a volte, al di là della logica. È così possibile che, grazie a un rito magico, in sogno ci si possa mescolare e diventare un solo essere fatto di due anime. Ci si possa innamorare di una santa e uccidere per lei, si possa arrivare a compiere delitti efferati suggestionati da una credenza. Le protagoniste delle storie, che si sviluppano in ambientazioni anche temporali diverse, sono ragazzine adolescenti."
Poco dopo, quando ormai la curiosità si è fatta già incontenibile, ci giunge una specie di sferzata, qualcosa che costringe a dire qualcosa di noi a lei. Potrebbe apparire sconveniente, ma come si potrebbe evitare di farlo? E perché mai si dovrebbe resistere alla voglia incontenibile di sentire vicina questa donna, una scrittrice che lo è per mille ragioni? Approfondendo l'analisi, qualche ragione la troveremmo: forse un po' di distacco potrebbe servire. Non è ciò si fa ogni qualvolta si critica-analizza un libro? Non ci si mette, forse, al di là della scrivania o si salta a piè pari su un piedistallo, pronti a pontificare o a far ruotare vorticosamente parole su parole, quasi fossero spade appena estratte dalla roccia, desiderose di ferire, recidere, spaccare il mondo. Oppure, semplicemente, pretendono di essere agitate come strumento capace di disperdere nel vortice del vento la sapienza, già acquisita, a cui solo qualcosa, sempre poco, va da se, ha aggiunto quella lettura?
Non ci ritroviamo in questo ruolo; non riusciamo a creare argomentazioni innovative da ultima e definitiva parola; da universi paralleli, da stringhe, da Big Bang che lasciano intuire una competenza superiore a chi scrive, che, da soli o in commistione, abbiano già fatto provare le sensazioni più profonde. Sarebbe, questo, uno stato in cui, dopo aver letto, dovresti inevitabilmente dirti, con saccenza: "chi me lo ha fatto fare?"
La saccenza! Ecco, la saccenza: meglio non ritrovarla in noi. Per fortuna. E non potremmo certo permettercelo. D'altronde: a che servirebbe? Ah!, si: a poter gonfiare il petto e dirsi, compiaciute, con la lacrimuccia che sta per apparire con il suo carico di pietismo "Che belle parole! Quanto siamo brave. Chi ci batte"?. Inutile dire che, un attimo dopo, apri distrattamente una pagina web, a caso, e scopri che c'è gente che davvero può ostentare attributi tali da scavare nei personaggi; nella prosa; far collegamenti che ti portano in giro per l'Universo letterario del mondo intero, come se fosse una passeggiata dalla cucina al bagno; magari mentre ti gratti la testa con atteggiamento ieratico, giacché è caduto il sale. Cosa preoccupante assai, ma non quanto lo specchio infranto…
E allora, buttiamo via la maschera e diciamo tutto, senza più girarci intorno, anche perché si sarà già capito: stiamo ciurlando nel manico, come sempre ci accade quando ci imbattiamo in un personaggio dal peso specifico e dalla storia straordinarie; in un personaggio di cui si vorrebbe sapere tutto per trarne un accrescimento. Anche umano. Noi ne abbiamo bisogno.
E allora smettiamola di girarci intorno!
E allora, su, facciamoci coraggio, diciamo senza finta modestia di non essere nessuno, eppure c'è qualcosa che ci lega a Daniela Frascati: delle protagoniste del suo libro si dice: "Tutte convivono con la crudezza di un'esistenza marginale dove il disperato e struggente bisogno di amore, a volte al limite dell'anomalia, sembra essere l'unica possibilità per affrancarsi dal destino infelice che le ha segnate."
Ebbene, noi abbiamo da poco finito di scrivere un giallo e il titolo è: Sospetti marginali. Ci sarebbe da aggiungere che è già pronto il sequel, con altri elementi che ci riportano a Daniela Frascati. Ma questa sarà un'altra puntata.
Quale significato addurre a questo elemento, a questa casualità inopinata? Facciamo una ipotesi: Daniela Frascati ha forse posto attenzione a vicende da svelare, giacché si collocano in un mondo che non si vuol vedere? Ha forse voluto dirci di leggere le sue parole facendo emergere, in filigrana, un mondo che non è davvero celato, per fare in modo di poter finalmente "osservare" ciò che vediamo?
Tralasciamo il nostro "Sospetti marginali" e, quindi, le nostre intenzioni, e apprestiamoci alla lettura di AMORI ANOMALI, chiedendoci, come accade solo quando un libro ti rapisce già alla prima pagina: ma le storie letterarie, la narrazione di fatti e vicende, attraverso quale strumento misterioso ti prendono e ti portano via dal mondo reale; per poi riconsegnarti alla quotidianità arricchito, avendoti spiegato ciò che la tua esperienza non ti ha fatto scorgere?
E, ancora: qual è il paradosso cui si allude nella scheda? Avrà a che fare con la realtà e la fantasia? Ci dirà, forse, se è proprio inevitabile che ciò che ha assunto i contorni della illogicità, debba essere per forza irreale, oppure no?
È una domanda che prefigura una maturità capace di far padroneggiare strati di se talvolta sconosciuti. D'altronde, c'è chi davvero saprebbe dire, a esempio, quali percorsi segue la coscienza? Cosa davvero accade quando ti fa illudere di essere sempre presente a te stesso, mentre, invece, stai tracimando nell'inconscio, per giungere alla fantasia sfrenata? È in questo gioco che ci pare di intuire la perizia di Daniela Frascati; è tutto ciò che, nel mentre ci fa immaginare che la lettura di AMORI ANOMALI ci porterà a riflettere su esigenze profonde, ma traendone piacere, quello che dà solo la buona lettura, conviene forse predisporsi alla scoperta di un grande libro. 


martedì 7 dicembre 2010

FILASTROCCHE

FILASTROCCA DELLA A

Ammainando la bandiera il corsaro Barbarbanera
Avvistò in mezzo al mare un veliero innaturale.
Arrembaggiò, urlò contento, lo accalappio in un momento!
Accostò il suo vascellone e saltò come un salmone
Accorgendosi all’istante che il veliero era volante.
Accidenti che sventura,  qui mi tocca aver paura
Avvampò per lo spavento e fuggì in un momento.
Altolà, gli sbarrò il passo un pirata grangradasso
Alto grosso e inferocito  e d’aspetto assai sgradito.
Affogatelo, urlò forte, ha giocato con la sorte
Annodatelo al pennone,  che gli venga un coccolone
Appendetelo al sartiame, se lo mangi un pescecane!
Addio vita, addio speranza… ma cos’è sto mal di pancia?
Apre gli occhi il buon corsaro che neanche è marinaro
Andrea è invece. Un gran ghiottone che ha abusato del torrone.
Alleluia, urla contento ho sognato, che spavento!
Avventura con finale che finisce sul guanciale. 



FILASTROCCA DELLA F

Filastrocca del cantante che con l’ugola rampante
Forza il suono del trombone e  ci canta una canzone.
Fa,fa,fa, sol, sol, mi, do, il più bravo io sarò.
Folleggiava alzando il tono: di mia voce vi fo dono.
Fieramente compiaciuto si portò le mani a imbuto.
Fuoco e vento aizzò il tapino, incendiando il violino.
Fracassò con un acuto la viola ed liuto.
Folgorò col tono basso mandolone e contrabasso
Fece dunque un tal casino che si ruppe l’ottavino
Fino a che anche il fagotto frantumò in sol botto.
Frastornati  dal rumore venne a tutti il mal d’umore e così…. scappò il tenore

lunedì 6 dicembre 2010

ANTEPRIMA



cliccare su anteprima per leggere alcune pagine:





http://issuu.com/absolutelyfree/docs/nuda_vita_anteprima

venerdì 3 dicembre 2010

La Fantastica storia del RE POTE

La Fantastica storia del RE POTE 
 Daniela Frascati                                                                              


C’era una volta, in un regno fantastico, un Re miliardario e potente. Nel suo regno ogni cosa era perfetta e i suoi sudditi appagati. Il Re Pote viveva in un grandioso castello da dove, con centinaia di telecamere sorvegliava che nel suo reame tutto scorresse secondo l’ordine meticoloso che emanava dalla sua volontà. I sudditi del Re Pote svolgevano i loro compiti come tante formichine coscienziose. Per le strade il traffico scorreva ordinato e senza intoppi. La gente non perdeva tempo, non si fermava a parlare, non si distraeva a guardare i fiori o le nuvole nel cielo; ogni cosa e ogni persona era esattamente nel posto dove doveva essere. Agli angoli delle strade, giganteschi altoparlanti ogni mezz’ora diffondevano la voce del Pote  Re che salutava il suo popolo.
- Siate leggeri e spensierati, o fortunati sudditi di questo regno prospero, servite con passione e gioia il vostro re. Nessuna preoccupazione potrà mai turbare la vostra esistenza fino a che  ci sarò io a pensare e decidere per tutti.
In quel regno perfetto una sola cosa incrinava le certezze del Sovrano ed era l’impertinenza della sua bellissima figlia Pinocchia.
Fin  da piccola la curiosità  irriverente di quella bam­bina era   andata  di pari passo con il suo  dispettoso naso.  La ragazzina ficcanasava ovunque; di ogni cosa  chiedeva il  perché  e il percome, scombussolando la vita del regno. Piombava nella bottega del fornaio, dove il poveretto sudava sette ca­mice sfornando  in continuazione  pani croccanti e pro­fumati di ogni forma e  dimensione e, lì su due piedi, chiedeva al malcapitato e ai  suoi aiutanti:
- Perché, voi che siete i panettieri del  regno e im­pastate pagnotte gigantesche e soffici per il Re e  la sua corte,  mangiate solo croste secche e briciole avanzate? -   e ai  minatori che tornavano dalle miniere di sme­raldi  sporchi  di terra e anneriti dal fumo dell'acetilene - Come mai, voi che strappate alla terra tutti quei tesori e quelle ricchezze, siete invece così miseri e cenciosi?
I  malcapitati non sapevano cosa  rispondere. Nessuno aveva  mai rivolto loro  domande tanto difficili e  inopportune. Tutti quei punti interrogativi rotolavano  da  una parte al­l'altra delle loro teste fino a che non perdevano la ragione e le guardie del Pote Re dovevano metterli a riposo  nelle prigioni del castello.
Fu a quel punto che intervenne il gran ciambellano Sottilini.
- Vostra Altezza Reale,  è  necessario per il bene del regno  che Pinocchia  venga allonta­nata per  un  periodo  di rieducazione all'ordine. Vi chiedo  di affidarmela, Ve la ri­porterò quando non ficcasanerà  più. 
A  malincuore  il Sovrano che amava molto quell'impertinente principessina, fu costretto ad  accondiscendere  alla richiesta del Gran Ciambellano.
Così  Pinocchia,  in una notte nera come la pece, fu caricata sopra un carro di carbone e condotta dal perfido Sottilini nella Torre dell'Oblio ai confini del re­gno.
Passavano  i giorni in quella prigione  desolata.
Pi­nocchia trascorreva  il  suo tempo affacciata alla finestra  che  dava  a levante. Da là  vedeva cose meravi­gliose che non aveva  mai neanche  immaginato. Foreste  di querce  imponenti  e  maestose,  pianure  verdi come gli smeraldi e, laggiù lontano,  nelle mattinate  più limpide,  poteva addirittura scorgere  il luccichio del mare. Nelle   interminabili notti solitarie Pinocchia imparò a os­servare le stelle e a riconoscerle una per una seguen­done l'impercettibile spostamento nell'arco del cielo.
Ogni  tanto il Gran Ciambellano Sottilini andava a trovarla sperando di sorprenderla sfinita dalla solitudine ma, a Pinocchia, non appena lo  vedeva,  il  naso cominciava  a  prudere a più non posso e così  un  effluvio  di domande  si riversavano sul malcapitato:
 - Perché il mondo è  così vasto e bello e i nostri sudditi non possono oltrepassare la fore­sta del Limite ? Perché  il tempo, che non ha misura ed è di tutti,  nel  regno di mio padre, viene imprigio­nato  nelle grandi clessidre del tempio e lui il grande So­vrano lo amministra a suo piacimento? -
Il  gran  ciambellano Sottilini scappava  via terro­rizzato.
Quella ragazzina era un pericolo incombente per il prospero  e ordinato regno del Pote Re, bisognava assolu­tamente eliminarla.
Così chiamò al suo cospetto l'elfo più perfido  e  ma­ligno della foresta e l'incaricò di ucciderla.
Pondilla, l'elfo, fu ben  felice di  assumersi  l'incarico;  del resto aveva  proprio bisogno di rinforzare  il suo prestigio un po’  in ribasso  e, detto fatto,  si trasformò in un minuscolo grillo verde che, balzelloni,  balzelloni, arrivò fino alla torre dell'Oblio.
A  Pinocchia non sfuggì quell’animaletto che se  la studiava  ormai da  un bel pezzo, immobile sotto un ciuffo  d'erba che cresceva tra le crepe del da­vanzale.
- Ciao grilletto - lo salutò Pinocchia - come hai fatto  ad arrivare così in alto?
Pondilla  fu sul punto di rivelare  la sua vera natura ed eliminarla immediatamente, ma rimase grillo verde, e  continuò  a osservare la bella principes­sina e il suo naso  bizzarro che s'impennava a ogni cu­riosità.
A  forza di studiarla per cogliere il momento più adatto  in cui  avrebbe potuto sopprimerla, Pondilla ri­mase  irretito  nella grazia  leggera  e geniale con la quale  Pinocchia,  dall'alto  di quella prigione, si spiegava il mondo.
Così rimandava di giorno in giorno il momento in cui avrebbe compiuto  quel gesto irreparabile e intanto, la torre  in  cui divideva la sua nuova esistenza di grillo verde   con  Pinocchia, diventava un luogo  speciale, l'avamposto  di un mondo meraviglioso che niente aveva a che fare con  il mondo degli umani triste e desolato  che Pondilla  aveva conosciuto.
Là nella torre dell'Oblio i giorni rilucevano.
L'intensità  e la passione che Pinocchia metteva nel vivere quella sua vita di solitudine, ravvivata ora dalla presenza  del grillo, era commo­vente.
Una notte che il vecchio Pondilla si struggeva di ma­linconia per  il suo mondo verde e umido, e di amore per quella  fanciulla dall'intelligenza assoluta, per una svista nel controllo  dei suoi poteri, ritornò a essere  Pondilla l'elfo. Quando  Pinocchia si svegliò, trovò  un’orribile  creatura verdastra e bitorzoluta  che  la guardava accovacciata infondo al suo letto.
- Chi sei? Come sei arrivato fino quassù? E il io amico grillo, dov’è? L’hai ucciso? Dimmelo, ti prego? Come farò ora senza di lui?
Pondilla, commosso per la disperazione di Pinocchia non trovò il coraggio di confessare la verità.  Si rannicchiò nell’angolo più buio, coprendosi il volto per non spaventarla. Lei spinta dal dolore per la perdita dell’amico con il quale aveva diviso la sua solitudine, e spaventata per la  visione di quell’essere ripugnante, corse verso la fine­stra e si gettò dall’altissima torre. Pon­dilla, il  vecchio  elfo innamorato, per non  perderla defi­nitivamente, riuscì  a trasformare quella caduta mortale nello scoscio di  una cascata pura come cristallo di rocca.
Allora quell’acqua impetuosa dilagò nella foresta, arrivò fino  alla  vetta altissima  dove era appol­laiato il castello del Pote  Re  e  lo trascinò via, lontano assieme al gran ciambellano  Sottilini  e alla sua corte di gentiluomini perfetti.
Poi del tumulto della cascata non rimase che un limpido zampillo dove,  i  sudditi di un regno ormai senza Re, veni­vano a dissetarsi di  una nuova sete, quella della consa­pevolezza e della libertà.
Ma, guardando con un po’ di attenzione tra la schiuma e il gorgoglio dell'acqua si poteva vedere una candida ninfa  di fonte con un curioso naso che giocava a farsi inseguire da un vecchio cavalluc­cio  verdastro e gibboso.


martedì 30 novembre 2010

LA GRANDE DORMITA

LA GRANDE DORMITA
Daniela Frascati (2007)




La mattina era chiara e serena come solo le mattinate in California sanno essere.
Quella nebbiolina speciale che vi avverte inequivocabilmente che siete a Bay City, all'alba di una bella giornata di tarda primavera, era già evaporata e dalle vetrate del mio ufficio in Falkland Street entrava una luce netta e pulita.
Io me ne stavo sprofondato nella scalcinata poltrona dietro la scrivania, i piedi poggiati sulle scartoffie polverose accatastate lì da giorni.
Meditavo sulle mie sventure. Pareva che a Los Angeles tutti fossero diventati angioletti.
Me la passavo decisamente male, erano ormai settimane che masticavo hot dog dal vago sapore di caucciù e mi sciacquavo le budella con whisky di terz’ordine.
Mi calai il cappello sugli occhi, tutta quella luce mi spiazzava i pensieri. Considerai che non valeva la pena continua¬re a consumare le suole dei miei vecchi mocassini in giro per Beverly Hills.
Così mi abbandonai a quella sonnacchiosa malinconia consolatoria che ti fa pensare che la vita è fondamentalmente una sciagurata trappola per topi, dove il topo che arriva per primo non è sicuramente il più lungimirante.
Cinque minuti dopo il campanello della porta della sala d'aspetto mi fece sobbalzare sulla poltrona.
- Philip Morbowe, l'investigatore, è lei? - fece entrando, il tipo smilzo con due baffetti antipatici stampigliati sotto il naso.
- Accidenti se sono io! - risposi - Nessun altro con un po' di buon senso potrebbe accollarsi un'incombenza così ingrata come la mia vita.
- Ve l'ha mai detto nessuno che i clienti non vi cercano per le vostre facezie? - disse il tizio mentre esaminava puntigliosamente la stanza.
Mi alzai prontamente in piedi e corsi a liberare la poltroncina di fronte alla scrivania.
- Sono Max Dalemat - si presentò - Avreste niente in contrario a un passaggio di proprietà? - e mi fece sventolare sotto il naso un verdone talmente impeccabile che sembrava stampato in una lavanderia cinese.
- Nelle mie tasche quel biglietto avrebbe sussulti di solitudine !
- Se è solo questo il problema, rimediamo immediatamente - disse Max Dalemat e, come per miracolo, nella sua mano perfettamente curata, di verdoni ne comparvero un bel mazzetto.
Se voleva stupirmi c'era perfettamente riuscito. Quel tipo troppo azzimato, che tutt'al più poteva gestire una bottega di barbiere in Darkness Street sembrava avere più soldi di un giocatore d'azzardo in pensione.
Ma non battei ciglio e mi limitai a sorridere.
- D'accordo, date qua e spiegatevi meglio - e tesi la mano per facilitare quel passaggio che avevo rischiato di mandare miseramente in fumo per la mia dabbenaggine.
- Non mi piacete Philip Morbowe - scandì Max Dalemat fis-sandomi dritto negli occhi - fosse per me non vi affiderei neanche il mio bastardino nell'ora del bisogno, ma ho avuto l'incarico di rivolgermi a voi. - Così dicendo trasse dalla tasca una busta giallina e me la porse fissandomi con quegli occhietti furbi e impenetrabili.
Dentro c'era un biglietto dove era segnata un'ora, un indirizzo ed una frase priva di qualsiasi senso logico e la foto sfocata e malferma di una ragazza over size.
- Di solito mi si fa sapere almeno per chi dovrei lavorare e anche il perché - dissi guardando quella foto che non mi diceva proprio niente.
- Faccia conto che un uomo molto importante abbia perso qualcuno che le è caro e lei glielo debba ritrovare. - tagliò corto Max Dalemat.
                                         
 Sotto la facciata della casa - albergo per giovanette si celava inequivocabilmente un casino di infimo ordine, me ne accorsi dopo un'oretta che posteggiavo sul marciapiede di fronte.
All'ora stabilita nella missiva che mi aveva passato Max Dalemat ero puntualissimo davanti alla porta del villino. Feci squillare un campanello che risuonò a lungo nelle mie orecchie prima che una donnetta trasandata e scialba venisse ad aprirmi.
- Giorno d'affitti - dissi senza saper quale intonazione dare a quelle parole che potevano voler dire tutto e di più.
- Cosa volete? - domandò con voce inespressiva la donna.
- Ho un appuntamento qui per le cinque.
- Il vostro nome?
- Mi chiamo Morbowe, ma dovete avvertire che sono qui perché è giorno d'affitti.
- Qui è giorno d'affitti a ogni ora - borbottò la donna mentre si allontanava traballando.
Ero lì che aspettavo qualcuno che non sapevo chi fosse e cosa dovesse farmi sapere, ma nessuno si faceva vivo. Intanto mi guardavo intorno senza curiosità. Quei luoghi finivano con l'essere tutti ugualmente squallidi e privi di qualsiasi attrattiva. A un certo punto un odore acre e pungente mi prese alla gola. Poi un fumo denso invase il mio cervello e anche i miei pensieri cominciarono a galleggiare in quella specie di melma grigia.
Mi risvegliai dopo un'infinità di tempo, un po’ stordito ma soprattutto alleggerito da quanto avevo nelle tasche compreso i proiettili della mia " trentotto " e i verdoni con i quali mi aveva pagato Max Dalemat.
La casa ora appariva più vuota e silenziosa che mai, non c'avevano messo molto a darsela a gambe.
Ficcai la testa sotto un rubinetto e lasciai che l'acqua facesse il suo effetto.
Mi diressi verso una porta che dava sul retro della casa e nell'aria tiepida della sera presi a scendere il pendio della collina. Appena giunto sulla provinciale fermai la prima auto che mi capitò a tiro.
Non potevo fare scelta migliore. Era una vecchia Cadillac della polizia.
Il tenente Bob Brown e il suo aiutante un giovanotto segaligno con gli occhi esaltati mi squadrarono da capo a fondo.
- Ehi Morbowe ci avevano detto che ti eri cacciato nei guai in quella fumeria sulla collina! - mi apostrofò Brown.
- Come corrono le notizie in questo posto ! - dissi mentre mi accomodavo sul sedile posteriore e mi accendevo una sigaretta aspirandone lentamente il fumo - Peccato che vi abbiano dato un'informazione sbagliata ragazzi. Non ho fatto in tempo a mettermi nei guai, quando sono arrivato, gli uccellini avevano già preso il volo.
- Portandosi via anche la ragazza, naturalmente - ghignò Brown.
Non feci una piega, ma il tenente era troppo furbo e smali-ziato per non cogliere l'esitazione impercettibile che ebbi nel portarmi la sigaretta alla bocca.
- Che cosa vi ha lasciato intendere quel bell'imbusto che è venuto a trovarvi oggi Phil?
- La solita storia che vengono a dire a Philip Morbowe. Il solito ricatto, il solito riccone, tutto nella norma tenente; poi magari un amico poliziotto mi fa capire che è qualcun altro che devo cercare !
- Eh la vita è dura per i troppo buoni, Morbowe! Quel Max Dalemat si è servito di voi per fare arrivare quel mucchio di soldi alla banda che gestisce il casino e la fumeria, ma la ragazza chissà che fine avrà fatto ?! - una frenata brusca inchiodò la macchina proprio davanti al mio ufficio in Falkland Sreet e mentre scendevo ringraziando con un cenno della mano, il secco Mc Russian mi urlò dal finestrino.
- Fossi in voi cercherei di una certa Rosita Bandana, ha una bella voce, e dicono somigli in modo incredibile a .... - e lo stridio di una sgommata da maestro coprì l'ultima parola.
Salii di corsa e mi chiusi nell’ufficio.
Mi versai un doppio whisky tanto per rimettere ordine nella mia testa e rimasi seduto alla scrivania a lungo.
Nel palazzo scendeva il silenzio della sera. Mi alzai e passai nello stanzino da bagno. Ficcai di nuovo la testa sotto il rubinetto dell'acqua fredda, mi riannodai la cravatta e uscii nella notte profumata di verbena.
                                    
A mezzanotte avevo già fatto il giro di un numero infinito di night club; non avevo le idee ben chiare, non sapevo con esattezza chi cercare, né dove.
Al 144 di Idaho Street c'era il " Soul House " un localino molto intimo e ben frequentato di proprietà di un tipo equivoco, un certo Bert Luscon, che da giovane aveva cantato sui battelli lungo il Mississippi, truccato da nero.
Il cartellone fuori dal locale riportava a grosse lettere un nome Rosita Bandana.
Quando feci il mio ingresso l'orchestra suonava una motivo romantico e carico d'atmosfera. L'occhio di bue illuminava un tendaggio di velluto azzurro. Tutti gli sguardi erano puntati in quella direzione, anche quello di Max Dalemat che sedeva a un tavolo in prima fila. Feci per avvicinarmi ma nello stesso momento da dietro la tenda una voce intonò una nota rauca e sensuale.
Un attimo dopo la cantante era sul palco illuminato da un violento cono di luce.
Max Dalemat era terreo e pareva aver visto un fantasma. Cantava una canzone che parlava di un lungo addio con straordinaria intensità senza staccare gli occhi di dosso da Max Dalemat.
Gli uomini pendevano dalle sue labbra ma lei pareva cantare per uno solo.
La nota finale precipitò da un'altezza vertiginosa con uno rumore secco che fece accasciare sul tavolo Max Dalemat.
- Che mi prenda un accidente - pensai guardando la ragazza robusta inguainata in un vestito di raso carminio - che stupido, come non l'ho capito subito, ma è la giovane della foto che mi ha mostrato quel Max Dalemat?!
La finta Rosita Bandana non si mosse, era rimasta come impietrita, nella mano stringeva una piccola rivoltella di madreperla.
Il giovanotto che mi aveva dato l'incarico di ritrovarla era stato freddato a bruciapelo. Provai una certa commiserazione, i morti non mi lasciavano indifferente.
- Siamo arrivati tutti e due troppo tardi Morbowe, - disse alle mie spalle la voce familiare del tenente Bob Brown - Max Dalemat ha fatto chiaramente il doppio gioco. Era il braccio destro del Governatore Prodigy. Ultimamente questa torbida vicenda di sua figlia Rosy che era scomparsa da casa e che qualcuno aveva trascinato in brutta storia di droga e di sesso lo aveva sconvolto creandogli gravi problemi per la sua carica. Bert Luscon, che vuole candidarsi al suo posto ha architettato il tutto per coinvolgere Roman Prodigy in uno scandalo e Max Dalemat si è messo al suo servizio. Tutti quei dollari che Dalemat vi aveva lasciato credere dovessero servire a pagare il riscatto per liberare la ragazza, erano invece il prezzo per farla trovare cadavere nella fumeria sulla collina, magari in guêpière e imbottita di droga. Per qualche motivo non sono riusciti ad attuare il loro piano e Rosy si è vendicata e sostituendosi alla cantante Rosita Bandana. Ha sistemato la faccenda nell'unico modo possibile. Di là nel camerino abbiamo trovato la vera Rosita Bandana legata e incerottata e accanto a lei il cadavere ancora caldo di Bert Luscon. Il caso è chiuso Morbowe. Noi due non abbiamo fatto una gran bella figura. Ma ... domani per fortuna è un altro giorno.
Lanciai un occhiata di traverso al tenente Brown, mi rialzai il bavero della giacca e uscii nella notte, il buio era talmente nero che un brivido mi corse per la schiena. Avevo voglia di farmi una grande dormita.

mercoledì 24 novembre 2010

NUDA VITA - Romanzo di Daniela Frascati

NUDA VITA


"Quello, era Delfina: un corpo scempiato dal dolore e ritirato nel silenzio, tanto da cancellare persino il confine tra vita cosciente e morte in vita, lasciandola come una nuda vita in balia di tutti, un territorio di nessuno, sacro, ma allo stesso tempo violabile perché al di fuori di ogni legislazione."







Il corpo è quello di una ragazza qualunque, Delfina, che in seguito ad un incidente stradale entra in quel sonno profondo di cui non è dato sapere nulla.
Chi rimane sveglio invece sono tutte le persone che dall’altre parte, in una stanza di ospedale, le ruotano intorno con un solo imperativo categorico: farla svegliare.
E se fosse proprio lei a non volersi svegliare?
Da una parte, i pensieri e le visioni di una giovane donna in coma.
Dall’altra, la girandola di amici, parenti e familiari che si affollano sul guscio apparentemente vuoto della protagonista.
Un'opera struggente di Daniela Frascati, che esplora su un duplice binario la vita e ciò che di essa rimane.

www.okbook.it/shop/product.php?id_product=54

domenica 21 novembre 2010

L'ASCESA E IL SILENZIO

L’ASCESA E IL SILENZIO
Daniela Frascati  (2008)       
Non possiamo essere sorpresi che le destre siano oggi al governo del Paese. La loro ascesa viene da lontano e ciò che stupisce è che invece a sinistra nessuno abbia saputo cogliere i segnali che erano manifesti fin dalla cosiddetta “discesa in campo” di Berlusconi.
L’inizio lo possiamo intravedere già nei “favolosi” anni 80 di craxiana memoria quando un governo megalomane faceva galoppare il debito pubblico alla velocità della luce e delle mazzette, distribuendo prebende e favori e rendendo i nuovi ricchi ingrassati e felici e i nuovi poveri incazzati e depredati ma sempre più soli e lontani da coloro che avrebbero dovuto rappresentare i loro bisogni.
Sono questi gli anni dell’ascesa di Berlusconi come tycoon delle televisioni. Padrone indiscusso di  un apparato di persuasori più o meno occulti dove le cose e le persone stanno assieme trascinate dalla fascinazione immateriale della comunicazione visiva che attraversa capillarmente la società: un brusio e uno sfarfallio di immagini che intercettano continuamente il bisogno di un’identità individuale e sociale che si sta sfaldando. 
Anni che sono stati un passaggio epocale dove  la fine di un lungo ciclo tecnico e organizzativo di accumulazione del capitale coincide, non casualmente, con  il venir meno  delle grandi battaglie che hanno fatto la storia  del movimento operaio.
L’appartenenza di classe non si salda più all’esperienza di vita di coloro che dividono la stessa condizione, anzi, in  una società dove la competizione sociale viene promossa come affrancamento dalla “mediocrità” che trattiene nell’insignificanza, è un armamentario obsoleto che frena la dinamica sociale. Una categoria che va cancellata dal vocabolario della politica e, dentro questa nuova solitudine sociale, il lavoro è ricacciato sempre più nella primitiva condizione di lavoro sottoposto in cui il comando sul lavoro torna a identificarsi col comando sulla persona che lavora. In questa debolezza il conflitto viene frantumato al suo nascere e ridotto a espressione indifferenziata del disagio e della sofferenza individuale di donne e uomini. Un linguaggio spezzato che trasmette miseria simbolica e impoverimento critico.
In questo silenzio si consuma  la dissoluzione di  quel senso comune di sinistra che aveva attraversato l’intera società italiana del dopo guerra con le sue istanze civili e democratiche.
Se l’egemonia si costruisce a partire dalla capacità di conquistare l’adesione a un progetto politico e culturale condiviso e partecipato e si riproduce come influenza materiale e immateriale, capace di permeare le istituzioni più vitali e potenzialmente creative di una società, come non accorgersi che Berlusconi possedeva concretamente  proprio gli strumenti  più adeguati con cui manipolare e governare una società civile ormai allo sbando? Tanto più che questo  emergere dell’antipolitica si manifesta quando ormai il sistema produttivo del fordismo-taylorismo ormai al tramonto  aveva già compromesso la capacità della classe operaia di agire e dispiegare il suo antagonismo non solo all’interno della fabbrica ma anche nella società e, perduto questo baricentro, viene meno anche quel senso comune di sinistra che comincia a sbandare verso un’accettazione passiva e acritica dell’esistente.  
Ciò che è avvenuto e di cui i partiti della sinistra sembrano non accorgersi è  un mutamento profondo della società.  Uno svuotamento di valori e di senso dentro un’incertezza economica sempre crescente  che va di pari passo con  la loro incapacità, anche quando sono al  governo, di rispondere ai bisogni della gente, intanto che Berlusconi, ma anche la destra di discendenza fascista, consolidano la loro “presa” del potere, conquistando le istituzioni ma anche la testa della gente. Berlusconi è il leader indiscusso e può darsi in pasto al popolo come self made man che ha creato un impero economico e televisivo che lo rende uno degli uomini più ricchi al mondo, ma alla sua desta  il Msi, che si rinomina Alleanza nazionale - apparentemente rinunciando all’armamentario vetero-fascista che fino ad allora ne aveva supportato l’esistenza e  che aveva prestato il braccio a molte delle nefandezze ancora occultate nei misteri d’Italia che vanno dagli anni 60 agli 80 -  ha da tempo trovato i suoi mentori, da Evola ad Alain de Benoist , che teorizzano l'esigenza di una destra “gramsciana” capace di prestare attenzione alla dimensione culturale e metapolitica, per rifondare se stessa e dar vita a un nuovo senso comune. E ciò a partire dalla convinzione che l'uomo è un animale simbolico che si identifica con la propria cultura e che la forma-partito non è da buttare ma da aprire alla società, usando anche (ma non solo) la dimensione culturale e massmediologica.
Così  le destre hanno saputo proporsi   come segno di rottura con il passato e con l’esistente intercettando  il disagio e il malessere sociale e cogliendo il rumore di fondo, confuso e disordinato, di una società sempre più ripiega su se stessa, trasferendo questo disagio dai bisogni reale, materiali e quotidiani, verso l’immaginario consolatorio di un progetto piccolo borghese dove il valore della famiglia - mai  istituzione fu più contaminata e deturpata da falsi valori  -  può  ancora essere sventolato a baluardo del decadimento esterno.
La sinistra senza  più ancoraggio alla sua storia è ormai precipitata in un assordante silenzio; non ha un progetto alternativo di società da mettere in campo né sa offrire risposte ai bisogni e ai disagi materiali, e la domanda  sociale  che  si iscrive di diritto  nella  sfera  della politica non ha più parole per essere detta mentre l'unico spazio pubblico  legittimato è quello del consumo e del mercato.
Alla crisi del reale le destre offrono un’altra rappresentazione del reale: quella di orde di stranieri alle porte pronti al saccheggio e allo stupro, tacendo come il corpo violato delle donne è ormai orrore quotidiano nelle quattro mura delle nostre case.
Appare evidente come in questo passaggio, nel vuoto di valori sociali, gli elementi simbolici giocano a livello di comuni­cazione un ruolo fondamentale per destrutturate definitivamente ogni livello di risposta critica e di conflitto sociale di massa. 
La forza ideologica del modello del consumo e dell’immaginario televisivo fatto di vacuità in grado di sollevare dall’insignificanza che le tv berlusconiane hanno diffuso per anni dentro una società che perdeva inesorabilmente le sue radici e credeva di aver raggiunto un benessere e una certezza di diritti definitiva, ha vinto alla grande.
Quello che ne esce è una governo della società  che si fa forza delle paure e delle incertezze; un miscuglio pericolosissimo che si nutre del timore di essere allontanati sempre più dalla soglia dei garantiti. Paura che nel frattempo è diventata realtà nelle schiere di giovani donne e uomini precari e senza tutele e garanzie per il loro presente e il loro futuro.
La modernità che tutti nominiamo è alla fine proprio questo mix e le destre, Berlusconi, la Lega, gli epigoni del movimento sociale, presentandosi come coloro che vogliono rompere con l’ordine dato - come già avvenuto in altri momenti della nostra vicenda nazionale - hanno la capacità di interpretare la società nelle sue pieghe più complesse e oscure riproponendo un mito, un inganno che la gente non sa più riconoscere.
Il linguaggio  banalizzante che svela  il retroterra  dove attinge la destra è quello più becero e basso che parla alla pancia della società. Evoca false identità ma parla di razzismo e di xenofobia. Pratica la caccia al diverso e l'aggressività nei confronti dei corpi. Il corpo come il luogo simbolicamente centrale di questo accanimento: la nascita, la morte, la sessualità, la maternità, la salute, l’invecchiamento, vicende, rimaste per secoli confinate nel privato e nella sfera personale, vissute come accadimenti particolari di ogni singola vita, diventano lo spazio pubblico su cui intervengono pesantemente i massimi poteri, lo Stato, la Chiesa, la scienza, il mercato, i media, spodestandoci persino di quella signoria sulla nostra vita che ci appartiene per nascita. Tutto questo ha a che fare con ciò che politicamente è accaduto e sta accaden­do in questo paese.
Così come la violenza e la volgarità del  linguaggio, specialmente contro le donne, ci parlano e divengono  radice e metafora di ogni altra violenza. Il silenzio delle sinistre, e purtroppo anche delle donne, le legittima, mentre  esprime debolezza  e subordinazione ideologica. Questa indifferenza e incapacità di un agire efficace,  stanno  a significare una sudditanza che ha le  sue radici in un retroterra comune che  nessuna cultura di sinistra ha mai osato intaccare e tanto meno sovvertire, quella  dell'ordine maschile e patriarcale che presie­de agli assetti politico - sociali.
La strategia  delle destre nei confronti  della donna, da una parte, ri­chiama atteggiamenti e  ideologie " protezioniste "  dando fondamento a un'idea di stato paterfamilias, in cui la donna  è  ricacciata nelle logiche di un familismo falsamente tutelato  e garantito, dall’altra  viene sbandierata una illusoria emancipazione femminile che passa attraverso  parti anatomiche esposte senza orrore di sé;  un velinismo cortigiano e greve che niente ha a che vedere con la liberazione sessuale né con l’erotismo e tanto meno con la libertà femminile ma solo con l’idea di dominazione ed esercizio di potere maschile. L’immaginario e l’immagine  del corpo femminile e dunque l’identità fondante di ognuna è ormai sostituita da una rappresentazione grottesca, volgare e umiliante che  sta sotto lo sguardo di tutti senza che vi sia un'adeguata reazione, nemmeno da parte delle donne stesse. A questo proposito si può guardare il deflagrante documentario di Lorella Zanardi, il cui titolo è appunto Il corpo delle donne, facilmente rintracciabile su internet.
Di questa violenza di questo antifemminismo viscerale, Berlusconi, seduttore ammalato di esibizionismo virilistico fa sfoggio senza alcun pudore, sicuro di essere lo specchio in cui i veri uomini possono rimirarsi e riconoscersi.
" Ogni società è essenzialmente e prima di ogni cosa  istituzione di  figure  di  senso, creazione di uno  schema  di  coesistenza, un insieme di significati che permettono di dare un posto  agli esseri naturali e agli oggetti " (Castoriadis).
Quale società è dunque la nostra in cui l’orgia  del consumo, la perdita dell'orizzonte della trasformazione,  il venir meno di qualsiasi mediazione sociale e simbolica, la caduta del linguaggio, fanno emergere come unica logica incardinatrice del mondo la categoria della dominazione  che, questo paese,  con complicità e compiacenza,  ha  affidato nelle mani di un sovrano incontenibile che divora con la sua dilagante potenza mediatica ed economica ogni residuo di democrazia?

venerdì 19 novembre 2010

La svolta di Pérez-Reverte «Ho trovato la mia Lolita»


 

L' autore abbandona eroi e corsari. E pesca nei ricordi d' infanzia


MADRID - Scacco all' eroe. Scacco al super uomo, triste, solitario y final. Scacco al seduttore, cinico e baro. Scacco a corsari, avventurieri, spadaccini. È arrivata Lolita nel mondo di Arturo Pérez-Reverte. La zia zitella dei suoi ricordi d' infanzia a Cartagena. Non particolarmente bella, né spregiudicata come la narcotrafficante Teresa Mendoza di Regina del sud, né misteriosa come Tanger, la cacciatrice di tesori sommersi della Carta sferica. Lolita Palma è una ottocentesca, ragionevole e giovane donna d' affari a Cadice, la città più liberale d' Europa, sotto l' assedio francese di due secoli fa. E rappresenta forse anche un punto di svolta nel percorso narrativo del suo autore, che accantona momentaneamente il Capitano Alatriste e i suoi fratelli, per osservare il mondo, la storia, la guerra, gli uomini e, soprattutto, il mare, con occhi femminili. Il che non significa romantici o irrimediabilmente sentimentali. «Ho 59 anni, da 25 scrivo romanzi. E adesso ho voluto fare un esperimento: il romanzo di tutti i miei romanzi. Non un romanzo totale, termine pedante, ma un libro in cui entrassero tanti generi: il thriller, l' avventura, la storia, l' amore, il mare, la scienza. Dove riecheggiassero, insomma, i miei libri precedenti, con tutti i miei trucchi e le mie esperienze» anticipa Pérez-Reverte. Il risultato ha un titolo, «L' Assedio» e già un posto in cima alle classifiche delle vendite nelle librerie spagnole. Mentre per l' edizione italiana, che uscirà fra otto giorni dall' editore Marco Tropea, è stato privilegiato nella scelta del titolo il cuore «giallo» della storia: la macabra partita di un assassino seriale di ragazze nella città bombardata. La perversa sfida de Il giocatore occulto attraversa, senza logica apparente, una Cadice che lotta per l' indipendenza, assediata dai francesi: «Ho scoperto da corrispondente di guerra il cambiamento delle città quando sono sottoposte a pressioni esterne. Le atmosfere che si creano e gli ambienti diventano molto interessanti - ricorda Pérez-Reverte - . Luoghi falsamente sicuri e confortevoli, che si possono espugnare con un cavallo di legno. Ho conosciuto città sotto assedio: Beirut, Nicosia, Sarajevo e ho visto come si modifica il comportamento delle persone, ho studiato la geometria del caos». Ma non ne è scaturito un romanzo storico: «La Storia mi serve da sfondo: la Spagna dominata dai francesi è in questo caso lo scenario che ho scelto per ambientare le vicende di una borghesia che muore, di un mondo gattopardesco che si consuma lentamente. Cadice, nel 1810, era ancora quello che sarebbe potuta diventare tutta la Spagna, se non avesse perso il treno della Storia: colta, progressista, libera dall' egemonia di re, preti e ministri. Una borghesia che commerciava, leggeva, studiava, conosceva varie lingue, viaggiava». L' eroe borghese, in questo caso, si chiama Lolita Palma, ed è una giovane donna cui il «padre aveva fatto studiare l' aritmetica, il cambio internazionale, la conversione di pesi, misure e monete straniere, e la contabilità e la partita doppia del commercio. Inoltre, parla, legge e scrive in inglese, e se la cava in francese. Dicono che sappia qualcosa persino di botanica, la piccina. Di piante, fiori e via dicendo». Ma, povera lei, ha già passato i trent' anni: «Peccato che sia rimasta zitella», è il vendicativo, liberatorio sollievo degli affettuosi pettegoli, distanziati nell' emancipazione. «Conosco quel mondo di chiacchiere - sorride lo scrittore -, è la storia della mia famiglia, nella borghesia di Cartagena. Il destino della zia nubile, di cui si parla la sera, in casa, bevendo il caffè». Finché non arriva un pronipote, Arturo Pérez-Reverte, a riscattarla e a riscriverne le sorti. La rivincita di una femminista in crinolina? «Per carità. Detesto gli anacronismi: una femminista a quel tempo, no. Mi sono sempre burlato del femminismo talebano - allude alle sue polemiche con Bibiana Aido, la ministra dell' Uguaglianza nel governo Zapatero -. Nubile e orfana di padre, Lolita Palma è una donna che si trova a dover farsi carico dell' eredità familiare. È una donna che lotta in un mondo di uomini, e capisce che deve giocare con regole maschili. Ma le donne vere non sono uomini travestiti». E infatti Lolita non perde il secolare vizio femminile di innamorarsi di un bel tenebroso: «Pepe Lobo è un seduttore; nella Spagna di oggi sarebbe un torero, un Cayetano Rivera» cerca paragoni con l' attualità l' autore. Nella fattispecie è un corsaro che, a differenza di quanto accade in altri romanzi di Pérez-Reverte, cede il timone dell' intreccio alla sua coprotagonista: è lei a condurre la partita. «Non è una novità - osserva lo scrittore -. Da sempre l' iniziativa corrisponde alle donne, sono loro a scegliere e a elaborare una relazione. L' uomo pone il territorio, ma chi lo arreda è lei. Però è vero che, dal punto di vista narrativo, l' eroe maschile è già troppo sfruttato. Si può solamente ripetere, combinando elementi già noti. L' eroe maschile, come il capitano Alatriste, può essere solo un eroe stanco. Di lui già sappiamo che cosa gli accadrà dopo la battaglia. La donna invece ha appena un secolo di esistenza letteraria: è lei adesso il personaggio più moderno e potente. È suo anche il giudizio più lucido». Racconta Pérez-Reverte che fu, ancora una volta, sua figlia Carlotta, oggi archeologa a Pompei, a illuminarlo sull' universo femminile: «Ad appena 7 anni, un giorno, mi riprese per qualcosa: però, papà!, disse con un tono di superiorità morale. Già sapeva che gli uomini sono creature disprezzabili. Da proteggere, perfino. Compresi che lo sguardo di una donna è diverso da quello dell' uomo e, da allora, mi sforzo di capire il mistero di quell' occhiata». Probabilmente una scrittrice avrebbe suggerito un finale diverso a Lolita, nelle cui vene scorre inevitabilmente il sangue di Falques, Il pittore di battaglie: «In quel romanzo c' è tutta la mia visione, cruda e pessimista, della vita. Ho raccontato come vedo il mondo e adesso non posso più rettificare. I miei personaggi successivi si muovono alla luce di quello che stabilì il pittore di battaglie. Mi impedisce di scrivere altro. Perché quando scrivo io mi limito a ricordare». Non può inventare, come il suo grande amico Javier Marías: «Un romanziere puro. Un grande amico. Da bambini leggevamo gli stessi libri: con una differenza, quelle storie lui voleva scriverle, e io viverle». RIPRODUZIONE RISERVATA **** La città Cadice nel 1810 era colta, libera dalla egemonia di re, preti e ministri, progressista **** Senza il «capitano» Il nuovo romanzo di Arturo Pérez-Reverte, «Il giocatore occulto», è in uscita da Marco Tropea editore (pp. 640, 20). Lo scrittore abbandona per ora il capitano Alatriste, protagonista di tante avventure tra cui «L' oro del re», «Il cavaliere dal farsetto giallo», «Corsari di Levante» **** L' amicizia Io e Marías da bambini abbiamo letto storie uguali. Lui voleva scriverle, io viverle

Rosaspina Elisabetta
(20 ottobre 2010) - Corriere della Sera


I colori di Susanna

9 novembre 2010  dal Blog di Luca Telese
I colori di Susanna 
susanna
Domenica Italo Bocchino viene accolto negli studi de La7 da una stoccata ironica di Enrico Mentana: “Stavolta l‘avete fatta davvero grossa…”. E il numero due di Futuro e libertà stupito: “Perché mai?”.  Mentana, serio: “Tu sai perché avete scelto il blu e il verde per il vostro simbolo?”. E Bocchino: “Erano due colori che non erano presi da nessuno… E poi trasmettono immediatamente due idee: il prato e il cielo. Cioè la natura e l’uomo, l’ambiente e la cultura…”. A questo punto Mentana è scoppiato a ridere: “Ma Italo, che dici?”. Si è voltato verso un plasma indicando il logo blu e verde scelto 3 mesi fa per il suo tg: “Guarda: chi lo ha disegnato ha copiato noi”. E Bocchino, ridendo scherza sullo share: “Se facciamo il 9% pure noi…”. Ma forse c’è un’altra fonte di ispirazione: avete mai visto il logo del mitico formaggino Susanna?
Luca Telese
 

La Via Lattea ha catturato un pianeta di un'altra galassia

Un caso di «cannibalismo galattico»

La Via Lattea ha catturato
un pianeta di un'altra galassia

Intercettata una corrente di stelle di una galassia nana già inglobata a 2 mila anni luce dalla Terra

Un caso di «cannibalismo galattico»
La Via Lattea ha catturato
un pianeta di un'altra galassia
Intercettata una corrente di stelle di una galassia nana già inglobata a 2 mila anni luce dalla Terra
MILANO
- Gli astronomi hanno scoperto il primo pianeta proveniente da un’altra galassia. Il risultato ottenuto da un gruppo di scienziati europei con il telescopio da 2,2 metri dell’Eso sulle vette di La Silla in Cile. La scoperta, riferita da Science, è importante per due motivi e ha risvolti intriganti. Innanzitutto dopo anni di delusioni nella caccia a pianeti extrasolari appartenenti a galassie che non fossero la nostra Via Lattea finalmente la cattura è arrivata. E ciò grazie a un comportamento di estrema violenza della nostra isola stellare la quale ha compiuto un atto di «cannibalismo galattico» come lo chiamano gli astronomi.
GALASSIA NANA - Nel cosmo è abbastanza frequente. Così è accaduto che abbia intercettato una corrente di stelle in viaggio nelle vicinanze e che l’imponente forza gravitazione della Via Lattea ha finito per divorare, inglobandole. Esse appartenevano a un galassia nana già «mangiata» dalla Via Lattea tra sei e nove miliardi di anni fa. Il secondo aspetto riguarda la stella (HIP 13044) e il suo pianeta catturati, che si trovano a 2 mila anni luce dalla Terra nella costellazione meridionale della Fornace. Si è infatti scoperto che l’astro-madre è una gigante rossa, cioè una stella alla fine della sua vita che già si è espansa dopo aver bruciato tutto l’idrogeno che la faceva brillare ed ora si alimenta con l’elio rimasto. È quello che succederà anche al nostro Sole fra circa 5 miliardi di anni decretando la morte della vita sulla Terra. Anzi ciò si verificherà molto prima, perché quando la stella muore espandendosi, lancia nello spazio un fiume di particelle e gas che spazzerebbero mortalmente l’ambiente terrestre. Inoltre lo spingerebbero anche più lontano.
FINE - Ora è stato osservato che il nuovo pianeta, simile come taglia e caratteristiche a Giove, è vicinissimo all’astro-madre. Ciò è attribuito all’espansione dell’astro e al suo contenuto effetto di spostamento. In conclusione, non solo si è scoperto il primo pianeta di un’altra galassia ma si è visto pure nella realtà quello che succederà in futuro al nostro sistema solare. Studiarlo, dunque, è una grande opportunità anche se questo non fermerà l’inesorabile fine: almeno ne conosceremo meglio i dettagli.
Giovanni Caprara
18 novembre 2010

giovedì 18 novembre 2010

Le mutilazioni genitali femminili

 

 

Le mutilazioni genitali femminili

Amnesty International

Per mutilazioni genitali femminili (MGF) si intende un insieme di pratiche rituali tradizionali presenti in molte comunità africane e asiatiche, connesse a riti d'iniziazione femminile e d'integrazione sociale, attraverso cui si effettua l'asportazione totale o parziale dei genitali femminili.

Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità ogni anno sarebbero circa due milioni le ragazze e bambine costrette a subirne le pesanti conseguenze, mentre si stima a 135 milioni il numero totale di donne e bambine mutilate nel mondo.

Tali pratiche, difese dalla comunità d'origine in nome della tradizione e spesso, per paura dello stigma sociale e dell'emarginazione, dalle stesse donne che le subiscono, rappresentano un gravissimo pericolo per l'integrità fisica e psicologica della donna: sono causa di emorragie, infezioni, traumi e, talvolta, di morte, poiché aumentano la probabilità di complicazioni durante il parto.

Oggi le mutilazioni genitali femminili sono osteggiate da gruppi e associazioni di attivisti in tutto il mondo in quanto considerate una grave forma di violenza, oltre che un brutale strumento di controllo della sessualità femminile, che permette il perpetuarsi della condizione discriminatoria che molte donne vivono all'interno delle loro comunità.

Le MGF rappresentano un'esplicita violazione dei diritti umani delle donne, così come sono stati formulati nei vari trattati internazionali, cui gli Stati responsabili sono chiamati ad adeguare le loro legislazioni interne.

Un recente rapporto di Amnesty International sulle MGF in quattro paesi africani (Benin, Gambia, Ghana e Senegal) ha evidenziato la difficoltà di intervento su una realtà complessa, in cui diverse dimensioni sociali si sovrappongono: una strenua resistenza alla loro abolizione proviene, infatti, dalle numerose donne specializzate nel praticare l'operazione, per le quali le MGF rappresentano una sicura e cospicua fonte di reddito oltreché il riconoscimento di un apprezzato status sociale, in contesti in cui la maggioranza delle donne è normalmente condannata alla povertà e all'esclusione.