amorino alato

amorino alato
C’era in lei, tuttavia, un angolo segreto dove non arrivava il riverbero di nessuna luce. Da lì veniva quella voglia di tenere a bada il corpo e la materia che gli dava forma; lì fluttuavano profumi intensi e dolcissimi, e fruscinìo di sete leggere e il seno bianchissimo di Rosa la Parda. Lì, coltivava il giardino di un’altra vita che ogni tanto, a occhi chiusi o nel sonno, andava a visitare.(Amore Anomalo - daniela frascati)

sabato 18 giugno 2011

IL CARTOGRAFO di Daniela Frascati

Il Cartografo è uno dei due racconti che facevano parte di Incunaboli Futuri, l’altro è Bassa Realtà. Ora che i diritti d’autore sono di nuovo in mio possesso lo pubblico qui, in due parti. Proprio in occasione di Pontida e delle “pretese” della Lega. Leggendolo ne scoprirete il perché.
Sono  storie di cui Maria Rosa Cutrufelli, nella prefazione al libro, aveva scritto queste parole:
Hanno una sorprendente capacità, questi due racconti di Daniela Frascati: la capacità di inventare metafore adeguate al nostro tempo e di narrarci, attraverso queste metafore, il 'grande disordine' contemporaneo, la confusione di un mondo in bilico tra il reale e il virtuale, il desiderio di sovrapporre l'immagine della realtà alla realtà, fino a farle coincidere.
Chi è Tebaldo Percato, questo personaggio eccentrico che nel primo racconto chiede al cartografo Scorpiade di dare nome (e quindi esistenza) alla Nazione dei suoi sogni, la Napadia? Un visionario, un politico ambizioso o semplicemente un uomo che crede alla forza della sua utopia (perniciosa) tanto da renderla viva e operante?
Ma quando la riduzione del mondo alla sua immagine è compiuta (ed è Scorpiade a fare il miracolo), ecco il sogno entrare in collisione con la realtà. E tutto precipita in un vortice in cui galleggiano "milioni e milioni di donne e uomini" che non sanno più "dove aggrappare le loro vite".



  
IL CARTOGRAFO
di
Daniela Frascati



(Prima parte)              


La costruzione era  una  struttura circolare, fatta di una sostanza terrosa che pareva racchiu­dere la potenza  creatrice e oscura della materia. Una gi­gante­sca cupola la sormontava. Eppure, qualcosa d’incongruo, una sorta di polvere sottile come cenere  ne  corrompeva  la grandezza.
Ciò  che  impressionò il viaggiatore fu la luce  chiarug­ginosa che avvolgeva l’edificio. Finestroni, con  vetri giallo sacrestia, correvano tutto intorno, ma non era da lì che  originava l’albore.
Con circospezione l’uomo avanzò nell’emici­clo antistante.  I suoi passi rimbombavano come colpi sordi nel silenzio assoluto. Sollevò la testa verso l’altissimo architrave che sormontava la facciata per leggerne l’iscrizione: BIBLIOTECA DI  GRAVILONA e più sotto QUAEDAM FALSA VERI SPECIEM FERUNT1
Certo di essere arrivato nel luogo giusto si fece avanti fino al massiccio portale  di legno.
Dentro, un andito scuro e umido conduceva a uno smisurato salone tappezzato di scaffali interminabili, interrotti qua e là, a un’altezza che dava le vertigini, dai finestroni che si vede­vano da fuori, in corrispondenza del primo piano.
Gli scaffali percorrevano l’edificio in ogni direzione, descrivendo strade e slarghi, in una geometria strabiliante e sfalsata fatta di angoli vuoti e di rientranze improvvise che non porta­vano che all’altra faccia della scaffalatura e, tutto quel per­corso chilometrico, era tempestato di dorsi di volumi, tomi, libri, atlanti, fascicoli, incunaboli.
Il viaggiatore, che con i libri e la parola scritta aveva poca confidenza, rimase per un attimo sconcertato poi, tornato in sé, riprese possesso dell’idea che l’aveva condotto  lì e continuò la sua ricerca.
La luce, in quei cunicoli, procedeva a sbalzi dilatandosi, quasi a ferire la vista, negli slarghi dove ampi tavoli ingombri di volumi erano predisposti alla lettura e alla consultazione, affie­volendosi, fino a farsi ingoiare dal buio, negli stretti corridoi e  negli alveoli incavati nelle pareti. Con un certo sforzo riuscì final­mente a scorgere in fondo a un lungo passaggio, proprio nella piazzola  che si apriva di fronte ai volumi  sulle Eresie nel corso dei secoli, colui per il quale aveva vagabondato per chilometri e chilo­metri in quelle terre oramai ab­bandonate da dio e dagli uomini.



Scorpiade lavorava con grande lena. L'ampio tavolo era sommerso da carte geografiche, atlanti, pergamene preziose e an­tiche rappresentazioni del mondo. Appunti sparpagliati ovun­que. Segni tracciati su pezzetti di carta che al  più piccolo  movi­mento   si mescolavano, avvicinati  da  quell'effetto  invisibile delle mole­cole che, sospinte da pola­rità differenti, si cercano tra loro.
Del  resto, una volta che aveva tratteggiato con la matita i contorni  di un territorio, i suoi dislivelli o gradi di altitudine, Scor­piade lasciava che l'appunto venisse fagoci­tato dalla sterminata quantità di carta da cui era eternamente  circondato, poiché, per un'eccezionale dote della memoria, poteva, a  suo piacimento,  rintracciarne  l'impianto nell'ar­chivio straordinario  che  aveva messo  a  punto nella sua testa e, da lì,   richiamarlo in qualsiasi  momento  e trascri­verlo  su una mappa,  completo di ogni parti­colare che fosse utile  per una corretta interpretazione.
Tutti quei  fogli  erano dunque minuziosamente per­corsi  da  segni  che significavano altro. Il più delle volte ne eludevano, necessariamente, la dimensione  e  la grandezza e, forzatamente, il grado di veridicità. La  realtà  per Scor­piade,  in quanto forma ra­refatta ma vacua del pensiero, fi­niva spesso  in un  eccesso di pre­senza che poteva impedire ogni possibilità di lettura  della carta.  Per  questo interve­niva con innesti, collegamenti e ri­mandi  che  costruivano  una complessità talmente prossima alle ricerche sulle pro­prietà  a-scalari  di Mandelbrot sulla geo­metria frattale, che facevano di lui non  solo un  cartografo di grande espe­rienza ma uno studioso e un ricercatore geniale.  La sua passione era la continuità e la contiguità che  sapeva  a rintrac­ciare  tra  l'eccessivamente materico e persi­stente,  come  una  ca­tena montuosa  o  una foresta pluviale, e la sua rappresenta­zione  grafica,  minuti segni convenzionali che, nella loro astratta sem­plicità, potevano descrivere  le strutture enormemente più com­plesse di cui erano il fondamento. 
Pur  non  allontanandosi  mai dall'assioma per cui una  carta  offre  un ritratto  rimpicciolito  ma sempre riconosci­bile del  mondo  reale,  possedeva quella  speciale  legge­rezza  con cui ri­usciva a svincolare  i  territori  che rappre­sentava nelle sue mappe, dall'asservimento dello spazio dove erano imprigionati da che esisteva il mondo e dove sarebbero rimasti confinati per sem­pre se non fosse inter­venuto lui, con la sua azione affranca­trice.
Quell'uomo  accurato  e  meticoloso entrava diretta­mente  nel  tempo  e, allora,  un  luogo  non era soltanto un'estensione  spaziale  della  percezione dell'occhio  ma, soprattutto, uno spes­sore temporale di eventi che lì  si  erano sovrapposti.
Pareva che Scorpiade possedesse la facoltà di evocare con il suo  tratto sottile  e  fermo territori e lande lontane, terre mi­steriose e  nasco­ste  che vivevano nella geografia recondita della memoria e scio­glierle  dall'assoggettamento  del  ricordo, poiché come afferma Woolbridge,  " il suolo  e  non  la carta...è  il primo documento " e la ricerca del car­tografo  consiste  proprio nel tentativo di col­mare questo scarto.
La  sua sorprendente abilità l'attribuiva all'insegna­mento, cui non  era mai  venuto meno, del vecchio maestro, Margal Lupita che, fin dalle  prime escursioni sul campo, l'aveva abi­tuato ad abbozzare su frammenti di carta, dati e  proiezioni  da  con­frontare,  sezione per sezione,  con  le  vecchie  carte del­l'area sot­toposta a rilevamento, poiché è l'occhio che vede e che con­fronta  il  fondamento di ogni cartografia possibile.  La com­para­zione era, dunque,  il solo  sistema  per sfuggire il rischio di un modello che  ordinasse  il  mondo secondo un pensiero forte e unico, ed  era questa la ragione  per cui Scorpiade si  muoveva  pe­renne­mente in mezzo a vortici di appunti, carte, mappe, che  gli confe­rivano un che di geniale e di bizzarro. Non voleva azzardare. Affidandosi  alla  sua straordinaria e meti­colosa memoria aveva paura  di  redigere mappe che affon­davano in ri­cordi troppo con­tigui con l'emozione di un odore  o di  una  lu­minosità parti­co­lare e il tempo, inoltre,  poteva  aver  conden­sato certezze dove non doveva esserci che passione per la ricerca e la  sperimenta­zione.  I  suoi  ap­punti svolazzanti diventavano quindi  la  mate­ria  empirica attraverso la quale metteva in pra­tica la sua perso­nale teo­ria della relatività.
La  cosa che più sorprendeva in lui, era l'abi­lità prodigiosa  con cui  trattava  la materia e l'accortezza con la quale riusciva  a  farlo.  Per questo, ciò che nel suo aspetto con­quistava immediatamente l'attenzione,  erano le  mani; di un pal­lore evanescente, quasi immateriali nella loro  leggerezza. Era  una meraviglia vederle al lavoro agili e irrequiete; solo allora, ci  si rendeva conto come ­l'arte, di cui sembrava natu­ralmente  dotato, fosse invece il frutto di un addestramento co­stante e acca­nito.
Quelle  mani fluide e insinuanti come un alito di po­nen­tino, asciutte  e brucianti come una folata di vento del deserto e che teneva in costante  allenamento,  facendo gi­rare e rigirare tra le dita e il palmo tre biglie  di  rame con inusitata maestria, cor­revano, bianche e febbrili, da un capo  all'altro della grande car­ta­pergamena, l'opera omnia, cui Scorpiade lavorava da anni: la Carta Monadica Totale, così gli piaceva chiamarla. Un corpo unico che,  attraverso una raffinatissima tecnica, utilizzava por­zioni di ter­ritori, come fossero mosaici di aree locali perfetta­mente comba­cianti tra loro, ma che  potevano facilmente  essere tra­sformate in sub-aree, di più facile manipolazione,  tali da   essere utiliz­zate come infrastrutture,  modalità  si­stemi­che  della carta. A prima vista sembrava di avere sotto gli occhi un re­ticolo dove  ogni quadratino o monade era confine e limite per sé e per ogni altro  quadratino, ma, allo stesso tempo, era sconfi­namento e pro­seguimento dell'altro, e  dell'altro  ancora, in un gioco di interse­cazioni e percor­rimenti che  alteravano  la perce­zione al punto che, la Mappa, pareva improvvisa­mente animarsi come uno  strano essere tentacolare e perfino Scorpiade  faceva fatica a  stenderla  sul pavimento della casa e a trattener­vela. Pianure  illimitate, fiumi impe­tuosi, prende­vano forma come se, le sue mani, possedessero lo  straordi­nario  dono  di mutare l'irrefrenabile energia da cui  erano  dominate  in sostanza.
Una materia duttile  plasmava il mondo e lo ricondu­ceva all'essenzialità planimetrica della  Carta Monadica To­tale, frutto di tutte le sue conoscenze e  sperimentazioni, e somma delle espe­rienze e delle teorie di tutti i  cartografi che fino ad allora si erano provati a rappresentare il mondo nella sua interezza e globalità. 
Conquistando territori e spazi, giorno dopo giorno, ora dopo ora, le  mani preziose di quell'uomo si accanivano nel met­tere assieme segni, colori, sfumature, viaggiando tra il segno e la cosa con rara maestria e accortezza.  Erano lo squarcio di me­mo­ria che illuminava improvviso la strada di campagna dove una donna, persa nei suoi pensieri, in quel paesaggio a perdita d’occhio, procedeva con calma e con  mollezza.  Fu in quel punto, in un tempo che andava via alla de­riva, segnato da un­ in­torbidamento del segno sulla  carta, che  uno sconosciuto l'aveva  aggredita.
Lì, su quel viottolo appena tracciato, seminascosto tra rovi di more e di lupino bianco, proprio sul ciglio dove la polvere della strada si confonde con il terriccio ferroso dei campi di pan­nocchie, l'umore greve di  quell'amplesso e  le lacrime salate della donna avevano formato un grumo tal­mente  denso  che, per  quanto Scorpiade volesse,  sfuggiva ogni volta al suo tentativo di  emen­darlo  così che, di fronte alla carta, ognuno poteva sen­tire sulla  propria pelle l'efferatezza di quel gesto e il dolore cupo che alla donna aveva  spezzato il cuore.
Scorpiade,  nel  preciso istante in cui stendeva la  sua  Carta  Totale, traversava  il  mondo e lo rinominava ogni volta, poiché, ogni volta,  i  luoghi erano altri da prima. Di­ceva il noti­ziario che quella mattina in un fiume  che si chiamava Om­broso, un gio­vane, preda di un patimento forte di solitudine e di amore  capo­volto, aveva cercato  la morte. Le mani di Scorpiade,  quasi alla cieca, lo rintraccia­vano immediatamente sopra la vasta super­ficie; sottile  filo azzurrognolo sul giallo ter­roso di una isoipsa. Lì,  quel  pa­timento irrimediabile, aveva rotto il fluire pa­cato del fiume e  ora provocava un salto impetuoso  della cor­rente  che schiu­mava in una ripida cateratta di sasso calcareo, sotto il sole impietoso d’aprile.
Scorpiade aveva trovato la soluzione all'unico pro­blema da sempre  insolubile per il geografo, rappresentare, contempora­neamente, la continuità spaziale  e  temporale senza sacrificare alcun particolare del territorio esaminato,  né  ridurre l'osserva­zione  a  una  breve serie di dettagli temporali  parziali.  Lui  era riuscito a ri­comporre la frequenza e la correlazione spaziale, in più,  incorporandovi  la  dimensione  sotterranea della stratifica­zione di  un  evento  nel tempo ma, ora,  ogni momento della sua giornata era ossessionato dalla necessità di continui adegua­menti. Registrava con puntiglio ogni mutamento o evolu­zione del terreno nella sua mappa così che, i territori di quel mondo fatto  di strati  e  di memorie, diventano sempre più smi­surati e finivano  per  usurpare ogni  spazio  disponibile  e non c'era più posto, intorno a lui,  che  potesse contenerli.
Già  i fratelli e la vecchia madre, i vicini, e piano piano tutti gli abitanti di Gravilona,  erano dovuti fuggire  via,  incalzati  in  una  migrazione  forzata da quell'accre­scimento  vir­tuale  che  intaccava, sgretolava  letteralmente il terreno sotto i loro piedi e, il povero  Scorpiade, cominciava a sentire il fiato gelato di una soli­tudine divorata da suo  lavorio sfrenato.
La biblioteca, edificio misterioso, di cui nessuno aveva memoria e che, si diceva, fosse stato costruito in una sola notte, era l’unico posto, in quella città, capace di resistere al dissipamento  che la stesura della Carta Monadica Totale  provo­cava. Unico luogo che, fino ad allora, era stato risparmiato dalla corro­sione  cui era soggetto il mondo intorno a Scorpiade. Il solo spazio che poteva ormai abitare e che sembrava difenderlo dalla disperata forzatura che lo costringeva  a disegnare planimetrie e carte geografiche.
Quel giorno, mentre cercava di ricostruire i confini di una en­clave  cancellata  dal  sangue di una guerra lampo e che do­veva essere reintegrata  al  più presto,  poiché  i sopravvissuti va­gavano su quella terra affamati  e  storditi dalla  nostalgia con nuovi nati e qualche vecchio preservato per  tramandare la me­moria, un uomo che non aveva mai visto prima si fece avanti  traversando  l’immensa biblioteca.
Lo  sconosciuto, appena gli fu di fronte, ignorando ogni più elemen­tare norma  di  buona educazione, iniziò, assai confusamente,   a parlare di un bizzarro quanto fumoso progetto che sembrava governare i suoi pensieri  come un’ossessione e, solo dopo una buona  mezz'ora, gli venne in mente di pre­sentarsi a Scorpiade come certo Tebaldo Percato, Fondatore Reggente del Libero Stato di Napadia. Quella rivelazione assolutamente im­prevedibile, lo sconvolse a tal punto che il sangue gli salì agli occhi e le sue carte  assunsero per un po’  una sgradevole ve­la­tura rossastra.
Superato  questo  primo ma non irrilevante impatto con il visitatore, Scor­piade  cercò  di capire cosa volesse da lui quel tipo che in modo  febbrile ed enfatico parlava  della Li­bera Na­zione di Napadia e della necessità che,  finalmente,  il suo po­polo potesse  vederla rappresentata, come avviene per ogni Na­zione che si ri­spetti, su di un Atlante geografico.
Tebaldo Percato spiegava con impeto, fin nei mi­nimi dettagli,  che tipo  di mappa voleva da lui, tirando fuori da una gigantesca  borsa  di tela un volumi­noso album di  foto­grafie, alcune in bianco e nero, dai  contorni incerti e sbia­dite dal tempo,  che raffiguravano monu­menti,  antichi pa­lazzi  nobiliari, oppure  campa­gne assolate disseminate di  mac­chie  scure che, a uno sguardo più attento, si riconosce­vano come ani­mali al  pascolo.  Le foto più recenti,  dai colori vi­vidi e smaltati che luccicavano  sotto  le lampade a neon, erano quasi tutte riprese di palazzi modernissimi, dalle  architetture  audaci  e  innovative, o prospettive di strade  dove  si  affaccia­vano opu­lente vetrine che suggerivano una città prospera di commerci e di scambi.
Scorpiade le guardò  con attenzione, rigirandole più volte tra le  mani; di certe ne ritrovò immediatamente la traccia nella memoria, ma la loro rispondenza geogra­fica non era con­forme assolutamente a quella presunta Na­zione, la Napadia, della quale, con sconcerto, Scor­piade non ricordava nulla, nep­pure i colori della bandiera. Solo molto più tardi, quando già la considerazione che aveva del suo lavoro e dei suoi studi co­min­ciava a vacil­lare, Tebaldo Percato chiarì l'equivoco  in cui l'aveva fatto cadere: la Napadia non esisteva, non c'era  e non  c'era mai stata fino ad allora, ma viveva invece nel cuore e nella  mente di  quell'uomo  appassionato ed esu­berante e, a sentir lui, era nei  desideri  e nella  determina­zione  di migliaia di uomini e di donne che vivevano  in  una vasta plaga fertile e brumosa.
Risultò  del  tutto inutile cercare di far comprendere a  quello  strano personaggio che, né la geografia, e tanto meno la cartografia, erano discipline di cui  si potesse abusare, usandole a proprio piacimento per soddisfare  il  capriccio o la vanteria di qualcuno.
La cartografia era una scienza che poteva partire da cer­tezze e generare ipotesi o partire da ipotesi e generare certezze, ma certamente non  poteva fondarsi sul nulla.
- Vede,  Signor Percato, quello che lei mi sta chie­dendo  è  decisamente contro natura. Come può controllare lei stesso, da nessuna parte quel  territorio è mai esistito!  - e Scorpiade spar­pagliò con un certo impeto e  malcelata ir­ritazione  un mucchio  incredibile di mappe e atlanti sotto lo  sguardo  imperturbabile di Tebaldo Percato.
- Va bene, va bene, ma non se ne preoccupi, vorrà dire  che, se  non c'è da nessuna parte, la dise­gnerà lei ora, qui, per me. Eh, se no,  troppo facile  sarebbe!  Che sarei venuto a fare, se già  fosse  esistita  una carta   geografica del Li­bero Stato di Napadia? Mica sono scemo, caro  il  mio carto­grafo, a me non è riuscito a fer­marmi nessuno fino ad ora, e sì che ci  hanno  provato in tanti!  Non ci si vorrà mettere anche  lei,  per caso? Io sono pronto a tutto, sa?! Perché  vede, se lei non mi dise­gna questa carta, con i suoi bei confini, precisi e  al posto  giusto, non posso neanche aprire sedi diplomatiche  e conso­lati! Lei lo sa questo?  Quindi, spero si renda conto di quale alto com­pito è stato investito.
Scorpiade  si tormentava  le delicatissime mani men­tre una stretta acida alla bocca  dello stomaco  gli  dava il segno che il suo flemmatico equilibrio  era  lì,  lì.  per saltare.  Cer­cando,  in  un ultimo tentativo, di far ragionare quell'assurdo per­sonaggio che forse, come accadeva a molti pazzi, voleva sol­tanto arrogarsi del titolo di Reg­gente, si provò  di nuovo  a spie­gare.
- Lei si ostina a non voler capire. Vede, la cartografia non è,  né  può essere,  il capriccio di un momento di esalta­zione e, tanto meno, una  forzatura della  realtà.  Io sono un cartografo im­portante, sono un'autorità  in  questo campo,  per cui mi creda quando le dico che non mi è con­sentito, per una  que­stione di deontologia professionale, cambiare le carte in tavola e falsare  la planimetria di un territorio. Insomma, nessun carto­grafo potrà mai sostituirsi agli  storici, agli economisti, agli stu­diosi dei co­stumi e delle  tradizioni. Io,  potrei  solo  limitarmi a riportare su una carta tutto  ciò  ...  se  esistesse, in ogni caso! Ma vede  si­gnor Te­baldo - e cercò persino un tono più con­fidenziale  e affa­bile -  queste cose non ci sono, non esistono. Perché se  esistessero,  la terra che lei evoca, sarebbe qui, ora, tra me e lei, grande,  masto­dontica  materia  compatta, che io non potrei eludere e a cui  do­vrei  piegarmi docilmente.  Tuttalpiù,  volendo interferire, potrei re­gistrare qualche  aggiu­stamento,  arricchirla di qualche parti­colare, inserire addirittura un ele­mento virtuale, che, per altro,  di­verrebbe  immediatamente realtà per il principio delle rela­zioni comunicanti, lo stesso dei  vasi comunicanti  della fisica. Ma la Napadia di cui lei mi parla, non è  altro che una persistente illusione. Una terra senza radici, non può generare ideali, né cul­tura, né opere umane, e tanto meno  passioni e sofferenze tali da fondare una legatura  di san­gue.  Non si può far nascere dal nulla un popolo  e  ancor meno una nazione. Perciò non mi chieda l'impossibile.
Scorpiade  terminò il suo lungo discorso e, certo di es­sere stato  più  che convincente, si apprestò a to­gliere da davanti a Te­baldo Percato  la gran quantità di carte e di atlanti che avrebbero dovuto provare  ciò che aveva appena asse­rito. E, per sottolineare che  per quanto lo riguardava il colloquio era fi­nito lì, aggiunse.
- Vede quanto lavoro ho accumulato nei i miei anni di stu­dio? Pensi che tutte  le planimetrie, mappe, carto­grammi, dovrò riportarle  nella  mia opera  omnia, la Carta Monadica Totale, elaborata seguendo la teoria  della car­tografia  psicoanalo­gica.  Ma mi scusi se le faccio perdere tempo e  l’annoio  con  discorsi troppo  complessi per un profano, pure lei avrà il suo da fare  in qualità  di  Reg­gente della Napadia – e malgrado avesse una  gran  fretta  di congedarlo  e tutto il suo discorso non mirasse che a questo, non poté  resistere  alla  tentazione di ag­giungere con tono puntiglioso - nonostante  sia  una nazione che non c'è!
Tebaldo Percato non si scompose, era abi­tuato a incassare ben  altri affronti, perciò non volle intendere l’accento di commiato che Scorpiade aveva dato al discorso. Ignorò persino che il cartografo gli aveva rimesso in mano il bor­sone di tela nera rigonfio di  scartoffie e di fotografie; anzi, facen­dosi spazio tra quella gran massa di volumi, carte geografiche e fo­glietti volanti, cercò un posto deve potersi finalmente sistemare. Si se­dette su uno scranno polveroso, vicino a un ­tavolo in­gombro di mozziconi di colori a cera e di tamponi, cercò un ap­poggio per i piedi e avendolo individuato in una pila di volumi posati sul pavi­mento,  si sfilò le scarpe polverose e sformate tirando un sospiro di sollievo.
- Mi scusi sa, ma ho camminato tanto a lungo per trovarla... - si giustificò.
Scorpiade lo fulminò con un’occhiata ma decise di mo­strare indifferenza così da scoraggiarlo e costringerlo ad andar­sene.
Si rituffò con accanimento nei suoi segni. Quel giorno stava tentando di risolvere una delle questioni fondamentali della geografia: il problema del cambiamento.
Era quello il nodo non solo teorico ma sostanziale che lo aveva contrapposto a Prigogine.
In un mondo, dove la struttura di persistenza temporanea è incessantemente sottoposta all’azione frenetica e pervasiva degli eventi, ogni mutamento,  anche il più impercettibile, provoca un’esaltazione della qualità instabile di cui è costituita la materia. E  quell’universo è costantemente sospinto sull’orlo del caos, malgrado un niente, possa far sì che tutto, sulla carta, si solidifichi  e torni a ricomporsi. Nel mondo di Prigogine, tutti i sistemi sono incardinati l’uno nell’altro in una catena di combi­nazioni in perenne fluttuazione da determinare un ordine che  ha nel cambiamento la propria regola e nel punto di singo­larità o di biforcazione la sua stessa dinamica. Un  ordine im­pre­vedibile  che fonda nell’oscura arbitrarietà dell’evento, l’evoluzione dello stesso. Aveva individuato insomma un criterio che, attraversando le fluttuazioni, rendeva una sequenza iniziale punto di non ritorno ma, allo stesso tempo, elemento fondante di un tempo e di uno spazio a venire, il cui germe era già conte­nuto nella stessa prerogativa di esistere.
- La geografia del mondo è così disseminata di mozziconi di memorie, di luoghi spuri dove non sarà mai pensabile far fun­zio­nare un modello di equilibrio costante tale, da poterlo comparare in qual­siasi punto del sistema, a meno che... - questo pensava Scorpiade quando improvvisamente gli venne in mente la frase di Prigogine che il suo maestro Margal Lupita citava a conclusione di ogni le­zione -  Viviamo in un mondo dove coesistono diversi tempi tra loro intrecciati e i fossili di molti passati.
E quella frase gli rivelò all’improvviso tutta l’abnormità di quel paradosso.
Certo il suo lavoro, la Carta Monadica Totale che do­veva condurre oltre le barriere del tempo e dello spazio e com­pren­dere per la prima volta, intersecate nella stessa sostanza, la di­mensione di ogni passato e di tutti i possibili futuri, sarebbe stata, anzi  era senz’altro, la summa di ogni conoscenza  in fatto di geografia e di scienze comparate. Era come se Eistein fosse ri­uscito a rappresentare su una mappa la relatività! Per tutti e due, la distanza tra passato, presente e futuro era solo un’ostinata,­ per­sistente illusione. Scorpiade sapeva con certezza di essere pros­simo a una sconcertante rivelazione; ma ogni  volta che si avvicinava al nucleo pesante di quella scoperta,  la teoria di Prigogine  e del suo ordine attraverso la fluttuazione, gli rovinava tutto.
Ogni singola fluttuazione o combinazione di fluttuazioni gli si manifestavano tanto potenti e scardinanti, da avviare una re­troazione che sconvolgeva la posizione spazio-tempo­rale appena raggiunta nella rappresentazione grafica.
Era intento a rimuginare tutta quella complessità di pen­sieri,  quando un ronfare monotono e leggermente sibilante in­ter­ruppe il filo  dei suoi ragionamenti.



1 Più di una cosa falsa ha l’essenza del vero (Seneca)

(continua)

IL CARTOGRAFO

IL CARTOGRAFO
di
Daniela Frascati



(Seconda  parte con aggiunta del finale)                    

 Il povero Tebaldo Percato, probabilmente sfinito dal lungo cammino, era sprofondato in un sonno pesante e flatulento in cui dava sfogo a tutti gli umori che nella veglia,  malgrado la sua na­tura grossolana, riusciva a tenere sotto controllo.
Scorpiade storse il naso, la volgarità e il cedimento del corpo ai propri bisogni lo mettevano a disagio. Gli si avvicinò quasi circospetto.
- Sveglia, ehi, sveglia! Allora, questa  Napadia, dove la dobbiamo mettere?! - lo scuoteva con una certa rilut­tanza.
Tebaldo Percato, destato di soprassalto, si ritrovò con  il cuore  che gli galoppava in gola e, lì per lì,  non riuscì a rendersi conto  dove fosse, poi, guardandosi intorno, alla vista di quel labirinto di libri, si ricordò della Biblioteca di Gravilona  e del perché avesse percorso mezzo mondo per raggiungerla.
Come in un sogno che finalmente si materializzava, vide il volto affilato di Scorpiade e i suoi grandi occhi cerulei che lo fissavano dietro spesse lenti da miope e sentì la voce che con insi­stenza domandava
-  Allora, questa Napadia? 
Quasi non credendo alle sue orecchie si levò in piedi di scatto e afferrata  la borsa da viaggio che aveva poggiato accanto a sé, la scaraventò sul tavolo.
Era così emozionato che non fece neanche caso alle mappe e ai colori  con i quali il cartografo stava lavorando. Vuotò il contenuto  sul tavolino e lo spar­pagliò, cer­cando concitatamente qualcosa che in quel disordine di oggetti sembrava non trovare. Finalmente recuperò una vecchia cartina, unta e consu­mata nelle piegature e, con devozione, la aprì sul ta­volo, spianandola delicatamente con il palmo della mano.
Poi, fece un gesto come a ricomporre il suo porta­mento stazzonato.
- Ecco, vede? - e gli indicò un punto sulla superficie uniforme e senza delimitazioni di alcun genere dove era rappresentata una bassura paludosa. Il tracciato era approssimati­vo, di  un denso colore verde prato - Qui è la no­stra Napadia. -  e con la mano sinistra, indicò sulla carta un pezzettino  anonimo di quel verde eccessivo, men­tre si stringeva la destra a pugno sul cuore e i talloni scattavano nella posizione dell’attenti.
Scorpiade gettò uno sguardo professionale alla carta.
Era un lavoro scadente, a metà tra una mappa di antica fattura e una carta topografica piuttosto rozza e mancante di qualsiasi particolare la potesse differenziare. Tal­mente rare­fatta e semplificata da non rappresentare assolu­tamente niente.
 Scorpiade, pensò che era  meglio così. Quello che aveva in mente non era certo corretto sul piano pro­fessionale né, tanto meno, temeva sarebbe stato accettato dalla National Geografic  Society  o dalle altre accademie, ma era l’unico modo, sicuramente il più diretto, che gli era venuto in mente per aggi­rare l’ingombro di Prigogine e dei suoi sistemi di fluttuazione. Quell’individuo bizzarro  era proprio arrivato a pro­posito
- Bene, signor Percato, è qui che dovrebbe nascere questa Napadia? - chiese con lo stesso tono con cui si sarebbe rivolto a un bambino capriccioso.
Gli occhi di Tebaldo Percato si illuminarono di vera gioia.
-  Si è qui, è proprio qui la nostra terra di donne e di uomini nuovi, ed è qui che deve sorgere la grande Nazione della Napa­dia.
Scorpiade nel frattempo aveva approntato gli stru­menti del suo lavoro. Su un’immensa Carta Geografica che aveva fatto calare dal soffitto non si sa con quale misterioso marchingegno, tutta quadrettata in frazioni  tridimensionali, il cartografo,  ag­grappato a una specie di predellino altalenante che s’alzava e s’abbassava con un giuoco di carrucole e di con­trappesi, tentava d’individuare quei pochi centimetri di territorio che Tebaldo Per­cato voleva assolutamente che diventassero il Libero Stato della Napadia.
- Dunque … mi pare … sì, eccola! Certo che quella carta che mi ha portato ne deve avere di anni! Adesso è tutto cambiato, guardi bene. Vede,  si tratta di un ter­rito­rio piuttosto ricco, con un complesso sistema d’irrigazione. Molte culture su calanchi argillosi rinforzati a terrazzi...
- Ma sì, certo, l’abbiamo fatti noi, e anche i canali, e le strade e le risaie, e gli argini, e i gelsi per i bachi da seta, e là, in fondo, vicino al mare, persino il contrafforte di cemento per impe­dire che la risacca si rubi la terra!
- Bene! Siete della gente veramente ingegnosa - disse Scorpiade mentre si dava da fare con una tavoletta pretoriana e una catena metrica -   ma, perché non continuate la vostra opera da soli? Ci manca veramente un soffio perché la Napadia vi appartenga davvero e voi possiate entrare nella storia come popolo nuovo!
- Abbiamo aspettato troppo a lungo - disse rabbuiandosi Tebaldo - una volta questo era un territorio incognito; ora è per­corso in lungo e in largo da arraffatori che se ne vogliono appro­priare. Lei deve fare per noi, ciò che noi non abbiamo saputo fare per questa terra. Lei ci deve dare dei confini, e li deve mettere tutto intorno - e con le sue tozze mani disegnava una cordigliera a nord della vallata - Vede quelle montagne che ar­rivano fino al cospetto di Dio? Quelle montagne devono fare parte della nostra terra. Ci appartengono, è da lì che sono venuti i no­stri antenati, e poi... - e raccolse da sopra il tavolo dove aveva sparpagliato i suoi album fotografici  un mazzo piuttosto considerevole di foto - noi vorremmo delle città, delle belle città, come ogni stato che si rispetti, e una capitale; abbiamo an­che il nome, un nome solo nostro, che a pronunciarlo richiama già la dimensione di una ricca e potente Nazione: Pondita, la nostra capitale si chiamerà Pondita!
 E tacque mentre  due la­crimoni che gli scendevano sulle guance andavano a cadere pro­prio sopra la vecchia mappa  aperta sul tavolo   che tanto gelo­samente aveva custodita finché il cartografo potesse fare di quel pezzo di carta una nazione.
Scorpiade, nel frattempo, era sceso dalla sua precaria  im­palcatura e gli si era avvicinato per guardare meglio le foto che rigirava tra le mani. Era lì, proprio nel  momento in cui una delle lacrime  di Tebaldo si addensò sulla carta formando un nucleo di colore più scuro, dai contorni leggermente aggricciati che, per qualche attimo, continuò ad allargarsi  ancora sulla superficie.
- Ecco, qui fonderemo Pondita! - disse con una certa en­fasi Scorpiade, cogliendo al volo quel grumo di passione che era colato via dal corpo di Tebaldo Percato - Come ogni capitale che si rispetti deve portare in sé un po’ degli umori degli uomini che l’hanno voluta eleggere, prima tra le loro città! Il legame tra un popolo e la città che hanno scelto a simbolo, perché li rappre­senti e racconti la loro storia, deve essere un vincolo che ha ra­dici nella carne.
Tebaldo lo ascoltava a bocca aperta; quello era senz’altro l’uomo giusto, colui che avrebbe dato dignità di popolo alla sua gente. C’era una moltitudine sparsa in quella superficie priva di luoghi, che attendeva di entrare nella Storia.
Scorpiade, dal canto suo, vedeva  già davanti agli occhi la nuova terra plasmarsi nello stesso tempo in cui lui l’avrebbe pensata e sistemata su quella planimetria vuota. Im­ma­ginava  i suoi colleghi, i più apprezzati luminari della materia, intenti a studiare, a penetrare nei meandri della sua teoria, stu­pirsi di fronte alla manifestazione di  quel pensiero capace di materializ­zarsi al punto da provocare una fondazione.
Prese dalle mani di Tebaldo Percato il mazzo di fotografie e cominciò a stenderle una dietro l’altra sulla superficie del ta­volo.
Erano un gruppo di immagini che raffiguravano monu­menti e spazi urbani arredati con vasche floreali e pan­chine di pietra abbellite con volute neoclassiche. Scorpiade considerò che il gusto pacchiano e alquanto rozzo del suo interlo­cutore era disarmante, ma non fece alcun commento. Voleva interferire il meno possibile, se non altro con la scelta degli oggetti e delle cose che dovevano abitare quella terra. Alcune delle immagini, raf­figuravano vere opere d’arte o almeno parti di esse, poiché, Te­baldo e chissà chi altro  con lui, avevano scelto accurata­mente se­condo un criterio molto vicino a quello di un’agenzia di viaggi che impagina, in un depliant, un bel tour patinato.
L’ingenuo compiacimento del futuro Reggente era arri­vato fino al punto di aver selezionato persino la foto di una sta­tua to­gata su di un basamento a forma di parallelepipedo che rappresentava un personaggio, forse un alto magistrato o comun­que un legislatore, che teneva delle tavole aperte sulle  ginocchia mentre con la mano destra si sorreggeva la fronte in un atteggiamento di estrema concentrazione e che somigliava, in maniera straordina­ria, a lui medesimo.
- Da dove vogliamo cominciare signor Percato? - chiese con voce calma Scorpiade - Ha deciso cosa vuole metterci in questa sua Nazione?
Tebaldo Percato lo guardava perplesso ma soddisfatto.
- Mi piacerebbe farla veramente bella, la mia Nazione. Come vede, ho scelto tutto il meglio che si può trovare al mondo! Però prima di pensare alla forma, vorrei cominciare con qualcosa di molto concreto. Ecco guardi! - e indicò, tra le immagini di  opere memorabili, gallerie e giardini pensili, un edificio neoclassico  con una grossa scritta Banca Centrale - Io vorrei cominciare da qui. 
Scorpiade lo guardò sorridendo.
- Bene, cominciamo pure. 
E, così dicendo, srotolò un’ampia pagina di carta di riso, la spianò bene, prese il suo pennino di sottilissimo metacrile  a getto di china e cominciò a disegnare il profilo di una città.



In quello stesso momento, a molti chilometri di distanza, alcuni uomini autorevoli e potenti, che sorseggiavano affabil­mente un brandy dopo un’importante riunione economica in cui avevano deciso un rialzo dei tassi di interesse, cominciarono a sentire il lucido marmo sotto i piedi farsi molle come cera.
Fu allora che, nella strada centrale della città di Pondita,  sorse, come per miracolo, un maestoso palazzo di marmo bianco.
La popolazione si fermò, fece un oooh di meraviglia e pensò che, finalmente, il Reggente aveva tro­vato il famoso cartografo nella biblioteca di Gravilona dove si di­ceva  avesse riparato per scampare al progressivo collasso di  ma­teria provocato dal  suo lavorìo febbrile.
- Ora  desidero che la mia nazione  abbia memoria di sé e del proprio passato, ma non la memoria rifatta con la Storia dei grandi eventi, almeno fino a che   non  ci sarà qual­cuno tra noi capace di rac­contarla. Non voglio dare loro un passato scritto da altri; è meglio una memoria quo­tidiana, la storia della gente normale che si costruisce l’esistenza giorno per giorno. E voglio un luogo  dove il popolo possa eserci­tare il suo governo,   un’aula solenne, con affreschi e arazzi antichi; e un edificio con stanze ricolme di scaffali e ripiani, come questi - e fece un gesto con la mano che ab­bracciava tutta la monumentale biblioteca di Gravi­lona - ma non libri, devono contenere faldoni e docu­menti a non finire. Chiedo un archivio che scandisca dettagliata­mente le vicende quotidiane e umili   di  gente operosa come è la mia.
Scorpiade era chino sulla carta pergamena con l’occhio attaccato a una spessa lente d’ingrandimento, alle prese con le infinitesimali dimensioni necessarie a comprimere tutta quella quantità di spazio nel  quadratino che doveva  rappresen­tare il Municipio e l’Archivio Generale nel suo  sistema cartografico multidimensionale.

          
Nel grande Archivio di Stato la schiena del tempo è una scura stri­scia dietro un vecchio termosifone.     Le pareti sono scrostate e nello strappo a fiorami rosso sanguinaccio, s’intravedono chiazze d’intonaco grigiastro e muf­foso.
La grata del copri termosifone s’incurva deformata dall’eccessivo calore, l’uomo, assorto in un tomo del 1849, percepi­sce una specie di sfrigolio e pensando a un topo, gira intorno lo sguardo perplesso e assesta un colpo a palmo aperto alla grata per spianarne la superficie e farlo uscire da lì, ma, nel fare questo, la pressione scardina l’intero mobiletto dalla sua posizione.      Dallo spazio provocato da quel dissestamento cominciano a venire fuori, come incalzati da una forza ineluttabile, fogli dat­tiloscritti e pagine coperte di fitte scritture strinate e asciutte. Uscivano incontenibili.
Un crepuscolo rossastro che incendiava gli oggetti entra nella stanza. L’uomo guarda lo strano fenomeno, perplesso, ma senza prenderlo troppo sul serio; crede di essersi addormentato e di stare in un sogno.
Invece, in una frazione di tempo, la stanza intorno a lui non esistette più e con lei si erano dissolti tutti i documenti e le storie di contratti, fideiussioni, nascite, morti, lasciti e migrazioni in essi raccontati.
Contemporaneamente, nella piazza di Pondita, un ventac­cio vertiginoso sollevava nuvole di carta, refoli che svolazzavano turbi­nosamente andando a sbattere, come gabbiani impazziti, con­tro i vetri delle finestre dell’austero Municipio.








Scorpiade e Tebaldo Percato erano ambedue preda di un’eccitazione parossistica, e ognuno trovava nell’altro la rispon­denza speculare della sua esaltazione.
- Ecco, adesso potremmo metterci una grande basilica, per­ché è essenziale che anche lo spirito  abbia il suo nutrimento.
Nel dire ciò, l’uomo, sceglieva tra le foto delle centinaia di catte­drali e di chiese quella che, secondo lui, poteva rappresentare al meglio il sentimento di spiritualità che lo muoveva, così che, un immenso duomo, ibrido tra la chimerica visione di  Notre Dame e  la spoglia semplicità della chiesa di S. Francesco, veniva collocato in una sconfinata piazza dei Miracoli, dove già erano allineati la torre Eiffel, il Colosseo, e l’imponente tempio buddista di Feng Hsien.
Come Tebaldo Percato apriva bocca, Scorpiade,  immedia­tamente,  si apprestava a dare forma ai desideri allucinati della sua mente sovreccitata.
La vasta pianura, fino a poco prima piatto e uniforme  sconfinamento di terre senza rilevanza alcuna era,  adesso, so­vraccarica di simboli grafici che rappresentavano ciò che  di più meraviglioso e imponente avesse  prodotto nel corso dei se­coli l’ingegno umano.
Segni che raffiguravano ferrovie, strade, cimiteri, condut­ture, agglome­rati urbani, giardini, fontane, antenne, stadi, fabbri­che; ogni forma di modernità vi era sperimentata, linee avve­niri­stiche di autostrade e sopraelevate; spericolati sottopassaggi tra la riva destra e la riva sinistra di quel fiume che percorreva  la pia­nura in tutta la sua lunghezza.
Ogni cosa era scrupolosamente  incasellata in quel territo­rio vergine e che era rimasto tale fino a che Scorpiade non aveva speri­mentato la sua teoria della contiguità
Tebaldo chiedeva un osservatorio astronomico da mettere sulla vetta più alta di quella catena montuosa che aveva voluto come confine estremo della Napadia? Scorpiade correva come un invasato, attraversando corridoi e scalando scaffali, fino al­ set­tore dove era perfettamente  ordinato tutto lo scibile sulla  geo­grafia astronomica e una volta tirato fuori  il volume su Gli Os­servatori, ovvero il punto di vista migliore per guardare il cielo di AA. VV. a cura di Keplo Galei, con la fotografia a colori  dell’osservatorio del monte Palomar, rifaceva il tragitto all’inverso fino a  raggiungere Tebaldo Percato  che lo attendeva con l’indice puntato sulla cartina, proprio dove voleva che l’Osservatorio fosse si­stemato .
- Che ne pensa Maestro - chiedeva Tebaldo, che ora chia­mava il cartografo con quell’appellativo che riteneva più consono a dimostrare la sua deferenza - se qui,  sì, proprio qui, vicino al nostro fiume, ci piazzassimo una bella fore­sta di  baobab  e que­sto sottobosco tropicale così lussureg­giante ed esotico? - di­ceva mostrandogli la fotografia di una foltissima selva pluviale.
Scorpiade, che mai  e poi mai si sarebbe permesso di spo­stare un granello di sabbia dal deserto, oramai preda di un de­lirio frenetico, correva fino allo scaffale dove erano raccolte le schede botaniche  di tutte le piante del mondo  e una volta trovata la pa­gina della Adansonia Digitata ne memorizzava,­ meticolosamente, ogni particolare  per  andarla quindi a collocare in quell’ansa  del fiume dove avevano già piazzato l’Empire State Building e i Giardini Pensili di Babilonia.




Tebaldo Percato non stava più nella pelle. La  Napadia, sotto i suoi occhi, era diventata una vera nazione, con città, fabbriche e luoghi di incommensurabile bellezza; anzi era la terra più fertile e più ricca che mai fosse esistita al mondo.
Ma ciò che a loro, chiusi in quella fortezza, sembrava solo una sorta di gioco a incastro sempre più macchinoso e coinvol­gente, per la Napadia era diventato una vera, reale minaccia. Sovraffollata di cose e di oggetti che continuavano ad arrivare da ogni parte, andava sprofondando a un ritmo che si centuplica con il trascorrere dei minuti. I suoi abitanti, quel popolo appena nato, a cui un cartografo impazzito aveva da poco riconosciuto il diritto all’autodeterminazione, soffocavano sotto l’esorbitante quantità di materia, anzi,  qualcuno addirittura  ne moriva, schiac­ciato com’era da quel precipitare di castelli, ville, monumenti equestri, sopra la sua testa.
I due  uomini di tutto ciò non sapevano niente. Chiusi tra le spesse mura della biblioteca, ignoravano comple­ta­mente ciò che di tremendo accadeva fuori. Gli spostamenti e le traslocazioni da un territorio all’altro, i palazzi che scompari­vano in un luogo per ricomparire in un altro, creavano dei terri­bili vuoti di materia  e, dove l’assenza diventava più consistente e netta, lì c’era un precipitare del mondo circostante nel nulla.
Quei movimenti vorticosi, creavano strane cor­renti e così tante alterazioni nel campo magnetico che intorno alla bi­blioteca di Gravilona si cominciarono a sentire minacciosi crepitii e un vorticare mugghiante di una tale  furia che anche le salde radici  dell’edificio,  iniziarono a scric­chiolare. Allora si innescò un cadere degli oggetti fuori dalla loro collocazione e  libri  di ogni dimensione, presero a galleggiare assieme alle suppellettili,   ai tavoli, a ogni cosa­ ina­nimata si trovasse nel perimetro della biblioteca,  in un sot­tosopra disorientante.
Poi, come tutto  era principiato, tutto finì.
Si fece all’improvviso un silenzio raggelante.
- Mio dio - disse  Tebaldo Percato annichilito dal crepuscolo inesorabile che dilagava nero e vuoto - dobbiamo uscire da qui! - e si precipitò attraverso i lunghissimi corridoi inciampando, nella sua fuga, nei libri che erano venuti giù dal loro incasellamento meti­co­loso.
Scorpiade rimase impietrito. Ritrovata, nel terrore da cui era stato assalito, la lucidità che lo aveva sempre contraddistinto, seppe di  aver compiuto un atto  terribile di superbia e di orgo­glio.  Il mondo, ormai definitivamente dissipato nella sua essenza, sta­va precipitando in quell’enorme buco nero che risucchiava materia inerte. E  la biblioteca di Gravilona era l’anima stessa di quel vortice inesorabile.
 Il vuoto eccedeva ogni limite, e milioni e milioni di donne e di uomini    galleggiavano nello spazio,  in as­senza di un mondo dove aggrappare le loro vite.
- Sono solo il sogno di un  dio ubriaco  - ebbe il tempo di pensare  Scorpiade  mentre il risucchio che aveva inghiottito Te­baldo Percato lo stava già afferrando per i piedi - e questo luogo, la grande biblioteca di Gravilona,  con tutti i suoi percorrimenti  che non arrivano mai da nessuna parte, è la sua mente immensa e senza tempo, e i libri, i volumi che contiene sono  le forme so­lide del suo pensiero infinito, e le mie mani leggere e volatili come fantasmi, che hanno disegnato mondi e terre e illuminato per un attimo il sogno di qualcun altro, la sua vertigine di po­tenza. E ora che Lui si sta svegliando, tutto finirà per sempre.
Nel buio fondo della notte dei tempi, uno sbattere di ali gi­gantesco frullò l’eternità. Il dio ubriaco avvertì una solitudine schiacciante e una folata di tenebra lo raggiunse solo una fra­zione di secondo dopo aver pensato.
- Povero me, non sono altro che il sogno di una farfalla che sogna di essere un dio.





mercoledì 15 giugno 2011

Livia fa due chiacchiere con Daniela Frascati, autrice di "Amori anomali":


   

15 giugno 2011

  L' autrice

Daniela Frascati è nata in Toscana, ad Abbadia San Salvatore. Ha un figlio e una figlia, che ama definire "il suo sole e la sua luna", e cinque gatti. Vive a Roma dove ha lavorato come assistente parlamentare per un Gruppo della sinistra italiana e presso la Direzione Nazionale dello stesso Partito. Da anni impegnata nelle politiche della differenza di genere, nel sindacato e nel sociale, anche come organizzatrice di eventi culturali. Ha ideato e condotto, per Radio Città Futura (1996), una trasmissione dal titolo “Il Pane e le Rose” sulla cultura e il pensiero femminista. Ha collaborato con vari giornali territoriali.


Il libro

Amori anomali si compone di cinque racconti ognuno dei quali racconta di una storia d'amore sui generis, ambientati in diversi luoghi e tempi. Protagoniste di queste storie sono quasi sempre adolescenti all'affannosa ricerca dell'amore visto come unica via per raggiungere la serenità ma che, una volta incontrato, si rivela una potenza devastante.
L'intervista

Buongiorno Daniela, grazie per la tua gentilezza.

Buongiorno a te, Livia.

Innanzitutto ti faccio i miei complimenti per Amori anomali. Vorrei subito chiederti di spiegarci perché hai deciso di trattare l’aspetto “anomalo” dell’amore.

Grazie, i complimenti fanno sempre piacere, spero lo stesso piacere che si ricava leggendo questi racconti.
L’amore che volevo misurare in queste storie si porta dentro molte anomalie; quella di un corpo “diverso” in un momento storico in cui la diversità è una condanna sociale; l’amore accecante, al limite della pedofilia e quasi dell’incesto, tra don Ermanno e Anella, la ragazzina che alleva come una figlia; l’amore come trascendenza mistica che s’imprime nel corpo e lo segna; l’amore come mescolanza estrema di due corpi che attraverso un rito magico si fondono.
Le protagoniste femminili sono quasi tutte ragazzine poco più che adolescenti per le quali il corpo è, nello stesso tempo, straordinaria dimensione vitale e luogo di un destino impietoso e inesorabile. Ciò che accomuna le ragazzine, come del resto gli altri personaggi che ne attraversano le vite, è il disperato e struggente bisogno di amore, un amore a volte al limite dell’anomalia, appunto, un ibrido che mescola sacro e profano, mondo reale e mondo immaginario e che fa di tutti, poveri esseri che trascinano una sofferenza che non sanno neanche nominare.

Secondo te, riferendosi all’amore, si può parlare in qualche caso di “normalità”, non sarebbe una banalizzazione di un sentimento tanto vitale?

L’amore è, secondo me, una sorta di stato di Grazia, soprattutto se ricambiato, in cui chi ama fa dono di sé, nella pienezza del suo essere, corpo e anima e, questo stato di grazia, compie il miracolo, per chi lo sa riconoscere, di rivelare cose e dimensioni di cui non sapeva e non conosceva la profondità. Non c’è nulla di “normale” nell’amore così inteso. È un amore/passione, dimensione totalizzante ed estrema, qualcosa che sconvolge la vita ma la restituisce nella sua pienezza. Non importa quanto dura; quando c’è, è una dimensione che segna e sovverte anche le vite più normali.

Nei tuoi racconti la ricerca dell’amore e quella di una esistenza diversa vanno di pari passo. Possiamo dire che le protagoniste delle varie storie vedono l’amore come la via che le porti alla completezza, alla realizzazione di se stesse come persone?

L’anomalia di questi amori è proprio nel fatto che queste giovani donne sono “prese d’amore” da e per uomini o passioni più grandi di loro. Sono “cercatrici di amore” malgrado loro, poiché la condizione sociale in cui vivono, solitudine, povertà materiale e soprattutto affettiva, le espone a questa “ricerca”. In queste storie, l’amore, nelle sue accezioni più complesse, anche morbose, come appunto in don Ermanno, è “l’unica” possibilità per affrancarsi da una vita di solitudine e miseria affettiva e materiale. Ed anche l’unico modo perché il proprio corpo acquisti identità e valore.

Dal libro emerge però anche un altro aspetto dell’ amore: viene definito “contagio”, descritto come una forza devastante che non permette di sottrarsi alla sua potenza. Quale delle due visioni è più vicina al tuo modo di vivere l’amore?

L’amore, è un contagio, una malattia che attacca tutti gli organi e i sensi: il cuore, la mente, il gusto, l’olfatto, il tatto… Tutto di noi è “contaminato” da questo stato alterato di coscienza che ha quasi sempre una durata temporale limitata, poi si torna, alla normalità. Non so se sia un bene, ma succede così. Chi è stato segnato, però, da questo genere di amore non sarà più lo stesso di prima.
L’amore è dunque, per tutti, un territorio di scoperta ma è anche necessario possedere e costruirsi gli strumenti per misurare questo sentimento che coinvolge l’interezza della persona. Corpo, psiche, mente, anima, come dimensione che fa entrare in relazione e “armonizza” il proprio sé e la connessione con gli altri. Per questo io penso che sia vitale accondiscendere alla potenza dell’amore/passione ma anche saper trarre da questa forza, consapevolezza e coscienza di sé e dell’altro.

Tra i vari personaggi dei cinque racconti quelli che mi hanno incuriosito di più sono don Ermanno e Maria Nives, ce n’è uno al quale sei particolarmente legata?

I miei personaggi mi legano tutti. Loro vivono di me e io attraverso loro approdo in quel mondo parallelo che la scrittura sa generare. Ognuno me ne mostra una parte, quella che le sue emozioni e la sua presenza sanno evocare.
Devo dire però che alcuni dei personaggi hanno tratti e caratteri che mi intrigano ancora e che non ho esaurito nei racconti. Don Ermanno, per esempio, la sua passione cieca e allo stesso tempo la sua intransigenza che lo fa aspettare anni finché ciò che ha deciso per sé e per Anella si compia. Con altro nome e in altri modi, sono sicura che tornerà nelle mie storie.

Prima che scrittrice sei stata impegnata in politica e nel sociale, come sei approdata alla narrazione?

La scrittura è una lunga frequentazione. Per lungo tempo ho però scritto cose frammentarie, appunti, considerazioni che poi finivano gettati via. Poi, anche l’impegno politico e sociale ha comportato un rapporto con la scrittura; si scrivono relazioni, ricerche, sintesi di riunioni o incontri. Senza parlare poi del lavoro di assistente parlamentare che ho svolto per diversi anni. Interpellanze, interrogazioni… un’abitudine quotidiana con una scrittura che mi avrebbe quasi insegnato l’asciuttezza e la sintesi se io non amassi invece una scrittura, “barocca”, carica di metafore e di colore.
La narrazione è arrivata negli ultimi quindici anni, privilegiando, anche per motivi di tempo, le short stories, come sono appunto questi racconti. A dire la verità, scrivo di tutto, favole, racconti erotici, narrativa a sfondo sociale, romanzi. Tra qualche giorno uscirà, in cartaceo, per l’editore Absolutely Free, un mio romanzo dal titoloNuda Vita che finora è reperibile un ebook.
Penso che scrivere sia anche, e soprattutto, raccontare storie, affabulare, coinvolgere, prendere il lettore per mano e stringere con lui un patto capace di “costringerlo” a seguire colui che racconta, ovunque, in qualsiasi dimensione reale o fantastica, immanente o metafisica.

Che rapporto hai con la letteratura, con i libri in genere? Ci sono degli autori che ti hanno influenzata in qualche modo?

Amo i libri e ne sono una divoratrice. Ne sono sommersa, credo di avere più di seimila volumi che non stanno più negli scaffali e me li ritrovo ovunque. Ho sempre letto molto, fin da bambina. Mio padre mi accompagnava ogni settimana alla biblioteca comunale di Abbadia San Salvatore, dove ho vissuto fino a tredici anni; tornavo a casa carica di volumi, non sempre adatti a una ragazzina della mia età. Ricordo la noia infinita della lettura di Tartarin di Tarascona e l’inquietante suggestione del romanzo Dorian Grey. Ma leggevo anche Piccole donne e Le avventure di Tom Sawyer, Alice nel paese delle meraviglie e Il meraviglioso mago di Oz. Da adulta ho letto e leggo tantissimo e non solo narrativa. Ho una passione per la letteratura ispano-americana, e credo si percepisca nella mia scrittura, in particolare in questi racconti. Borges, Marquez, Sabàto, tanto per dirne alcuni. Poi Tony Morrison, Yourcenar, Angela Carter, con cui ho molte assonanze anche nelle tematiche, e ancora Kafka, soprattutto Il castello, che sto rileggendo per l’ennesima volta, e Saramago, di cui ho appena terminato La Caverna e Murakami Haruki che è la mia passione letteraria più recente. Di lui ho letto tutto ciò che è stato tradotto in italiano e sto aspettando con ansia l’ultimo romanzo, 1Q84.

Puoi anticiparci quali progetti hai in serbo per il futuro?

Ho l’abitudine di scrivere più cose contemporaneamente, così come di leggere più cose allo stesso tempo. Sono alle prese con due romanzi che vorrei terminare, ci lavoro da anni, Il primo è molto complesso nella struttura e nell’intreccio, non ha un titolo nemmeno provvisorio, o meglio ne ha molti, poi deciderò; l’altro è un romanzo più breve, titolo provvisorio, Fatta di Piume.
Sono due storie diverse tra loro, anche per l’ambientazione. Fatta di Piumeracconta di una traversata su una nave all’inizio del ‘900, forse ha echi da romanzo gotico, ma tutti e due hanno in comune la tematica che di fatto attraversa molte delle storie che scrivo: la dimensione inquietante che si accompagna alla realtà del mondo che cade sotto i nostri sensi alla quale le nostre paure spesso danno corpo e vita.

Ti ringrazio ancora e ti saluto.

Sono io che ringrazio te e La Stamberga dei Lettori.


Intervista di Livia Medullina