amorino alato

amorino alato
C’era in lei, tuttavia, un angolo segreto dove non arrivava il riverbero di nessuna luce. Da lì veniva quella voglia di tenere a bada il corpo e la materia che gli dava forma; lì fluttuavano profumi intensi e dolcissimi, e fruscinìo di sete leggere e il seno bianchissimo di Rosa la Parda. Lì, coltivava il giardino di un’altra vita che ogni tanto, a occhi chiusi o nel sonno, andava a visitare.(Amore Anomalo - daniela frascati)

domenica 6 ottobre 2013




PASSATA È LA TEMPESTA: L’IMMIGRAZIONE  E’ MOLESTA
di Daniela Frascati

La tragedia di Lampedusa è un ECCIDIO, un eccidio dei criminali del potere economico che governano vecchi e nuovi colonialismi ed esportano non democrazia – se questa parola ha ancora un senso – ma guerre e false rivoluzioni.

Per qualsiasi testa pensante è impossibile credere che in un mare militarizzato come il sud del Mediterraneo, attraversato da navi da guerra di ogni nazionalità, da sottomarini e chissà cos’altro,  perennemente sottoposto al monitoraggio  di satelliti di ogni genere, nessuno abbia visto e veda, a ogni tragedia che si ripete, i barconi della disperazione che salpano da porti che tutti sanno. 

È una tragedia voluta, messa in conto da un’Italia e un'Europa concepite  sulle direttive di una capitalismo finanziario senza limiti né misure, che produce  disuguaglianze materiali e simboliche e getta nell’immondezzaio della Storia  tutto ciò che non si adatta al nuovo ordine che avanza.

Il trattamento riservato ai migranti  ha molto a che vedere con le carestie, la fame, l’impoverimento idrico e ambientale, con la volontà di  annientamento  di  interi  popoli e l’espropriazione dei loro territori, che questi uomini e donne vivono  nelle loro terre d’origine.  E come rifiutiamo di  vedere il nostro benessere di rapina, allo stesso modo, nella più immorale indifferenza, ci tappiamo gli occhi di fronte ai ghetti di miseria e di degrado che sono, per dirla con un'espressione forte, tanti Auschwitz disseminati nella modernità, dove li rinchiudiamo quando arrivano vivi nel nostro paese. Quei centri di detenzione coatta chiamati eufemisticamente, Centri d’accoglienza, voluti dalla legge Turco Napolitano e consolidati dalla Bossi Fini a cui, nel momento della vergogna e della tragedia, le stesse istituzioni che li mantengono, fingono di opporsi.

Viviamo nel nucleo di un capovolgimento  epocale,  nel disfacimento degli stati nazione e, in Europa, di quelle  socialdemocrazie  sconfitte come il comunismo dalla storia, nel pieno di una devastante omologazione all’unico ordine  incardinatore  del mondo, intreccio inestricabile e mostruoso tra poteri economici, finanziari, criminali. Viviamo con la scimmia addosso della del Fondo monetario delle varie troiche.

C'è un senso comune che trasmigra dal potere politico nelle nostre vite che  accantona qualsiasi  pensiero critico e si accontenta di gestire l'esistente ritenendosi appagato e soddisfatto quando il conflitto si sottrae alla vista e ognuno chiude oltre la propria soglia l’orrore maleodorante della miseria,  della vecchia,  delle  solitudini degli altri. Poiché l'orrore è scardinante e pericoloso e va tenuto a bada, guardato asetticamente dallo  schermo  televisivo.

A  tutto questo si risponde sollecitando gli istinti più primitivi di tribalismo etnico. Facendo  intravedere,  come in uno specchio deformante,  quella povertà e  quell'emarginazione in  stretta contiguità con la propria esistenza che su un  piano inclinato scivola sempre più pericolosamente verso  l'assenza di  riconoscimento sociale, la disoccupazione, la perdita  di potere di acquisto dei propri salari, il diritto alla casa; verso una vecchiaia di solitudine e  disperazione.

Il  conflitto è ormai attaccato ovunque e  depotenziato. Da tempo la stessa  sinistra  lo  avverte come un pericolo  per  la  crescita economica  e  per il cosiddetto benessere collettivo e  in  questo contesto le parole e gli atti che possono generarlo e  portarlo alla  luce sono esecrati come marginalità terrorista, così come avviene per le occupazioni che rivendicano il diritto alla casa o per la Tav, così come sta avvenendo per Erri De Luca che se ne fa portavoce . 

Tutto questo nell’assoluto silenzio delle nostre voci e delle nostre coscienze.


Tutto questo qui in occidente, in questo occidente dove l’Io, i leader, i papi, gli imperatori, i duci, gli autocrati, i tiranni, hanno tirato la volata a quell’aberrazione di pensiero unico in cui siamo naufragati, incardinati dentro ideologie nate nella pancia del capitale, così rinserrate dentro l’ordine monoteista del padre, di cui la forma economica della società capitalista  è il capolavoro sublime. Non sembri una bestemmia ma paradossalmente è così; questo mondo osceno e terribile, carico di sofferenze materiali, di morte, di guerra, che dilania le speranze e la voglia di futuro, questo mondo qui    altro non è che  il compimento della  gerarchizzazione interiorizzata dell’occidente - nello splendore di ciò che è stato capace di produrre con la bellezza dei suoi capolavori, con la grandezza del suo pensiero, con l’opulenza dei suoi beni materiali e non solo -  di comprendere  la dualità,  la  diversità,  l’alterità  come dinamica, come  spostamento oltre il sé, come condivisione del mondo.


mercoledì 7 agosto 2013

NUDA VITA – Un commento/recensione di Silvia Longo

NUDA VITA – Un commento/recensione di Silvia Longo

Ho un romanzo, da qualche giorno, tra le mani. L’ho letto con lentezza voluta, come si deve a un libro scritto con così tanta cura: “Nuda vita” di Daniela Frascati, Absolutely Free Editore.

Narra la storia di Delfina, una ragazza in coma da alcuni mesi. In particolare, si trova in quello stato che i medici chiamano minimal responsive, e nel quale il soggetto a volte risponde alle stimolazioni provenienti dall’esterno, dimostrando – sebbene non con certezza assoluta e in maniera discontinua – di essere in qualche modo cosciente di quanto lo circonda. Potrebbe addirittura svegliarsi, e in qualsiasi momento.
Al capezzale di Delfina si alternano in visita parenti, amici, il fidanzato, una fisioterapista capace di grande empatia. Con il loro agire e parlare, creano un vero e proprio teatro della vita, sul cui proscenio ogni personaggio mette a nudo le proprie fragilità, il coraggio, le piccinerie, la disposizione all’ amore vero, le paure segrete. Tra tutti spicca il personaggio di Fiore, madre di Delfina, donna che intende la vita come una battaglia continua, e che fatica più di chiunque altro ad accettare le condizioni il cui la figlia versa.
Molti di loro tentano di stimolare Delfina, toccandola, parlandole, facendole magari respirare un profumo. Cercano cioè di utilizzare il meccanismo dei sensi e della memoria per riportarla da questa parte della vita. Delfina, però, si arrocca in una dimensione tutta sua. Un Altrove in cui si rintana sempre più in profondità, come felicemente dimentica di tutto. Un nascondiglio morbido che Delfina sente di dover rafforzare e portare alla perfezione dell’inespugnabilità, perché a volte gli stimoli dall’esterno tentano di ricondurla al proprio corpo. È dalla nostalgia per la vita che deve difendersi, dalla dolcezza di certe memorie, per restare in quella nicchia che scopre lentamente in ogni dettaglio. Lì, concentrata su se stessa, e sul proprio sonno nel quale si identifica, sa che

“fuori c’è dolore e dispersione. Per questo, prima, ero sempre e ovunque inconclusa e affamata d’amore”.

Sorge graduale il sospetto che Delfina non voglia svegliarsi. Che preferisca lo sprofondo progressivo in quella dimensione di latenza. Qualcosa della sua esistenza trascorsa deve averla delusa, umiliata, ferita a morte per condurla a tale arrocco. Tutto ciò verrà svelato nel corso della narrazione, serratissima, che alterna capitoli in cui Delfina parla con se stessa, in un soliloquio di rara compiutezza formale, a capitoli in cui un narratore esterno ci presenta i vari visitatori della giovane e le loro maniere, attraverso un uso sapiente del dialogo.
Il finale è un “colpo di coda”: sorprende davvero, perché è lontano mille miglia dalla rosa di conclusioni possibili che il lettore può aver immaginato.

Questo romanzo ci offre una visione disincantata della vita (definita “nuda”, per l’appunto), ma è denso di compassione. Non vi si riscontra giudizio alcuno, da parte dell’autrice, né l’intento di catturare il lettore con scaltri espedienti di mestiere. Si percepiscono semmai una grande dedizione e un rispetto autentico per la letteratura. È quello che io amo definire un romanzo onesto, negli intenti e nella forma. Daniela Frascati dimostra di conoscere bene la pasta con cui è forgiata l’umanità, e di sapere cosa siano il dolore, il disincanto, l’amore. E, soprattutto, di saper scrivere con precisione, con densità di senso, con passione e cura del dettaglio.
Più di un passaggio mi ha colpito per nitore e bellezza. Questo è solo un assaggio, una piccola perla di dolore descritto a meraviglia:

“Anche la mia sofferenza è di ottima fattura. Così perfetta che non ne esco mai. Neanche nell’amore, o quando credo di essere amata”.


martedì 23 luglio 2013

SCRIVERE DONNA Intervista a Daniela Frascati di Laura Costantini




Daniela Frascati, vive a Roma ed è nata in Toscana, ad Abbadia San Salvatore. Ha un figlio e una figlia, i suoi “sole e luna” e cinque gatti. Da anni impegnata nel sociale, con attenzione alle politiche della differenza di genere, ha ideato e condotto una trasmissione radiofonica “Il pane e le rose” sulla cultura e il pensiero femminista. Andiamo a conoscerla.


- Quando hai deciso di scrivere e perché?
Sono da sempre una grande lettrice e chi legge finisce prima o poi anche per tentare la scrittura. Da ragazzina lo facevo per gioco; scrivevo con un’amica sceneggiature teatrali che poi provavamo a rappresentare per un pubblico di amici e di compagni di scuola. Solo molto più tardi scrivere è diventata una parte importante della mia vita, un modo per raccontare il mondo parallelo e contiguo alla realtà che vive con noi e poi, ancora dopo, è arrivato il desiderio di provare a pubblicare.

- Che tipo di libri leggi normalmente?
Leggo molto, soprattutto quella che viene definita narrativa generale e che molto spesso è invece un buon mix di generi che si attraversano seguendo il disegno dell’autore. Non amo la narrativa di genere in senso stretto, ma se la storia mi prende e la scrittura non è banale e fatta di luoghi comuni, non mi tiro indietro.

- Hai mai preferito un libro a un altro per il genere dell’autore?
Spesso ho preferito un libro per il suo autore.

- Hai mai avuto la sensazione che il tuo essere donna potesse, in qualche modo, ostacolare/favorire la tua passione per la scrittura?
No, essere donna, avere il peso di molte dimensioni contemporaneamente, il lavoro, quando c’è, l’accudimento dei figli, la cura dei familiari, una vita affettiva piena, sono fatiche che incombono sulla maggior parte delle donne; molto spesso la scrittura è un modo per superare queste fatiche e crearsi uno spazio intimo dal quale tutto questo riesce a rimanere, per qualche ora, al di fuori. Il desiderio di ogni donna che scrive sarebbe la famosa Stanza tutta per sé, della Wolf, luogo simbolico, ma anche fisico. Forse, oggi, è più difficile trovare lo spazio e il tempo materiale, che non quello metaforico della libertà di scrivere.

- Ritieni esista e sia individuabile una scrittura al femminile?
Ritengo che ci sia una specificità della scrittura femminile legata a sensibilità e modi di rapportarsi al mondo. Il fatto che le donne subiscano ancora il carico di un’infinità di incombenze quotidiane, che per educazione e cattive abitudini sociali e culturali gravano ancora sulle loro spalle, le rende capaci di una visione più complessa e articolata della realtà. Le donne sanno fare più cose contemporaneamente e non dimenticano mai l’investimento emotivo che questo fare comporta. Ma ci sono anche scrittrici che scelgono, consapevolmente, di partire dalla differenza di genere e, nelle loro storie, questo sguardo “eccentrico” sul mondo conta e conferisce spessore e forza narrativa. Penso, per esempio, a una grande autrice come Tony Morrison.
Poi c’è una letteratura considerata minore, quella rosa ma anche il Romance, e quest’ultimo, in particolare, è appannaggio quasi esclusivo di scrittrici donne e, pur rinchiuso in un recinto di genere, in questo caso letterario, diventa anche di genere femminile.

- Ritieni esista un pregiudizio nei confronti di un’autrice da parte dei lettori uomini?
Spero di no, gli uomini leggono molto meno delle donne e spero non si pongano anche interdizioni di genere.

- Hai mai avuto la sensazione di una preclusione editoriale nei confronti delle donne?
Purtroppo l’editoria ha molte altre preclusioni. Sappiamo tutte e tutti quanto sia difficile arrivare sulla scrivania di un editor o di una buona casa editrice ed essere letti. Credo che i manoscritti vengano gettati al macero senza distinzione del sesso dell’autore.

- Storie d’amore nei romanzi, pensi sia una roba da donne?
Ci sono storie d’amore che sono alta letteratura. L’amore ai tempi del colera, di Marquez è il primo romanzo che mi viene in mente, ma anche L’amore, o l’altro romanzo di Margherite Duras, Storie di amore estremo. Sono narrazioni dove l’amore è inteso come dimensione esistenziale e filo conduttore nella trama di una vita. Purtroppo la letteratura rosa, come molte altre narrative di genere, vive di cliché da cui sarebbe bene che le stesse autrici si liberassero. Si possono raccontare storie di sentimenti e d’amore anche senza le solite cornici edulcorate e, spesso, irreali.

- È possibile, a tuo parere, una collaborazione tra scrittrici così come si configura tra scrittori nella creazione di movimenti letterari (New Italian Epic o TQ, per esempio)?
Lo auspicherei davvero. Unire le forze, scambiarsi esperienze e costruire un percorso comune di pensiero può diventare un punto di forza, anche mediaticamente.

- Molte donne lamentano la difficoltà di dedicarsi quanto vorrebbero alla scrittura e i sensi di colpa per la necessità di trascurare altre cose. Tu come ti poni?
Non ho mai nutrito sensi di colpa nei confronti del tempo dedicato alla scrittura e alla lettura. Intanto perché scrivo e leggo soprattutto la notte, da sempre mi bastano 5/6 ore di sonno, e poi credo che il tempo dedicato a sé sia un obbligo verso noi stesse e giova anche ai rapporti interpersonali e familiari.

- Cosa ne pensi dei fenomeni editorial-marketing degli ultimi anni e della fruizione soprattutto femminile che li caratterizza?
Si legge troppo poco e gli editori sono costantemente alla ricerca di fenomeni letterari che facciano vendere. Il richiamo sessuale, soprattutto se l’autrice è donna e non si nasconde dietro pseudonimi vari, funziona sempre. Non ci sarebbe bisogno, però, di sminuire la letteratura erotica a livello di sfumature banalizzate in rapporti di maniera, senza alcuno spessore emozionale. Ci sono scrittrici erotiche e letteratura di genere, anche in questo campo, di altissimo livello. Anaïs Nin e il suo Il delta di Venere, scritto negli anni quaranta, o Una spia nella casa dell’amore, tanto per citarne un paio, ne sono un esempio, ma questa è davvero letteratura. Mi sembra che, da parte degli editori, questa opzione vada nella scia di una costante scelta al ribasso, per un pubblico di bocca buona, reso sempre più insensibile alla qualità. Quando la cultura diventa un bene di consumo usa e getta e non un processo di consapevolezza e di arricchimento, il senso critico e il piacere estetico sono sempre meno necessari e richiesti.

- Come ti porresti davanti alla proposta di entrare nel ciclo produttivo del soft-porn?
Come ho detto dipende dalla qualità della scrittura e da ciò che sta al cuore della storia. La sessualità è una dimensione complessa e anche difficile e scabrosa da trattare, non nel senso puritano del termine, ma nel complesso ruolo che gioca nella personalità di ognuno. Banalizzarla mi sembra riduttivo. La passione del corpo, la sessualità, non sono solo epidermico piacere, non sono un mordi e fuggi, ma qualcosa di avvolgente e di profondo che aiuta a crescere, a conoscersi, a conoscere il mondo.

- Pubblicare purché sia è un principio da perseguire?
Dipende dalle scelte di ognuno. Certo, con la penuria di editori che ci sono in giro, non mi stupirei che ci fosse un boom di scrittrici che si dedicano a raccontare scopate edulcorate!

- Come ti poni davanti al dilagare dei fenomeni editoria a pagamento, print on demand o self-publishing?
Pubblicare un libro a proprie spese non è mai un vantaggio. Intanto perché l’editore a pagamento ha già guadagnato sul suo “prodotto” e non ha alcun interesse a investire per promuoverlo e diffonderlo. Poi, nel lettore acquirente, può legittimamente sorgere il dubbio che dietro un libro così pubblicato il talento sia un optional, e spesso è così; ma, a volte, autori anche validi incappano in questi editori/stampatori sperando che possano essere un’opportunità per farsi conoscere. È esattamente l’opposto.
Il self-publishing può essere un’alternativa per non cadere nelle grinfie di questi editori e molti degli scrittori che si autoproducono lo fanno perchè convinti sia più conveniente, non solo per i possibili lettori ma anche per il loro profitto. Io continuo a credere che un libro sia non solo frutto della creatività e della capacità del solo autore ma sia un lavoro collettivo e complesso dove ogni intervento dei professionisti dell’editoria porta al risultato finale che è il libro. La qualità editoriale, dalla grafica all’impaginazione alla carta, è parte integrante del risultato. Anche da questo si riconosce un vero editore. I libri vanno amati, da chi li scrive e da chi li pubblica. È sgradevole trovarsi sotto gli occhi refusi, ripetizioni e un’impaginazione approssimativa come spesso accade con il self-publishing .

- Cosa ritieni che possa far la differenza nell’attirare un lettore: copertina, titolo, autore personaggio, passaggio televisivo o D’Orrico che si innamora di te?
L’investimento dell’editore, che significa cura dell’edizione e della scelta del titolo, della copertina. Sicuramente un passaggio televisivo in alcune trasmissioni è una bella spinta. Personalmente, non credo potrei contare su D’Orrico: ho superato l’età in cui folgorare gli uomini, tanto meno i critici, con l’avvenenza fisica.

- Quali tuoi buoni propositi salterebbero davanti a un improvviso successo?
Credo nessuno. Del resto non ho buoni propositi ma un’idea di me che non è venuta meno in passaggi difficili della mia vita. Un improvviso successo mi gratificherebbe molto e penserei che, a volte, i sogni non sono solo desideri.

- Sei autrice del bestseller del momento, tradotta nel mondo, milioni di copie: togliti uno o più sassolini dalla scarpa.
Non ho sassolini nelle scarpe, se fosse così non riuscirei nemmeno a camminare. L’invidia e l’arroganza non mi piacciono, penso che avvelenino la vita e non facciano gustare nemmeno i successi.

- Scrittore/scrittrice preferito/a vivente e motivazione.
- Una scrittrice vivente che amo molto l’ho già nominata: Tony Morrison. È strano che, per quanto abbia anche ricevuto il Nobel, in Italia sia poco conosciuta e apprezzata. È una narratrice complessa e non facile. Non tanto nella scrittura, che è sempre forte e travolgente, ma nella durezza delle storie che racconta. Lei è un’afroamericana ed è donna, e il sentimento di questa condizione attraversa tutte le sue opere e offre un punto di vista di genere sulla cultura e la storia della società americana.
Uno scrittore del quale ho letto tutto ciò che è stato tradotto, fin dall’ottanta, quando ancora non era così famoso, è Murakami Haruki, anche se il suo 1Q84, a mio parere, non ha reso giustizia alle aspettative che aveva suscitato. Quello che mi intriga in Murakami è il suo fare incontrare le ombre, dando corpo a percezioni appena sussurrate. E, da vero narratore, non dà spiegazioni agli eventi inspiegabili di cui intesse le sue storie. Li lascia sospesi tra le pagine. È un raccontare in cui cerca sempre un risarcimento alla perdita; di persone, di cose, di sentimenti chiusi dentro corpi impenetrabili e abbandonati a un flusso della vita che va verso un unico punto di non ritorno. Storie di identità, di solitudini, di certezze che vengono meno. Ma anche storie in cui si racconta sempre altro, e questo altro è uno degli enigmi che interrogano il lettore.

- Scrittore/scrittrice vivente che non riesci ad apprezzare e perché.
- Sono molti gli scrittori contemporanei e viventi con i quali non riesco a stringere il famoso patto come lettrice. Provo a leggerli ma, spesso, non arrivo alla fine. Un nome in particolare, Palahniuk; trovo la sua scrittura troppo costruita e fredda, da tavolo anatomico.

- Parlaci del tuo ultimo lavoro e fornisci un motivo per cui dovremmo leggerlo.
Il mio ultimo lavoro singolo e del 2011 è un romanzo: Nuda Vita. È la storia di Delfina, una ragazza in coma a seguito di un incidente, chiusa in quello stato che i medici definiscono minimal responsive. Attorno a lei si affannano i personaggi che fanno parte della sua esistenza: la madre, donna ingombrante e perfezionista; un padre lontano, mite e un po’ egoista; un fidanzato inconsistente che nasconde una colpa terribile; la fisioterapista; le amiche; l’uomo che amava di nascosto. Lo schema narrativo è semplice e ruota intorno a tre elementi: i monologhi dei personaggi che si alternano intorno al letto di Delfina, spazi di sincerità e di autoconfessione nella trama di ipocrisia e di doppiezza che segna le loro vite; i dialoghi tra loro, spesso segnati dal tentativo di svelare gli inganni reciproci; il flusso di coscienza di Delfina, vera e propria “donna abitata”, in bilico tra l’istinto di vivere e il bisogno di allontanare la sofferenza e abbracciare definitivamente il sonno (un bisogno talmente forte che i visitatori sono “assedianti” e l’assillo prevalente di Delfina è che i suoi pensieri non abbiano “echi né risonanze”).


Proprio in questi giorni è uscita un’antologia di racconti noir, ispirati a un grande del polar francese, André Héléna, a trent’anni dalla sua scomparsa, edito da Aìsara, in cui sono in compagnia di importanti e bravi noiristi come Alessandro Greco, Giovanni Zucca o Morozzi, per citarne alcuni tra i dodici. Ah, sono l’unica donna! 
Il titolo è Le Prince Noir. Omaggio ad André Héléna.


Quest’ultimo si può trovare in qualsiasi libreria. Nuda Vita, piccolo editore e piccolo distributore, è più facile acquistarlo su IBS o ultimabooks 


giovedì 6 giugno 2013

CUORE CAVO di VIOLA DI GRADO recensione di Daniela Frascati


Titolo: Cuore cavo
Autore: Viola Di Grado
Editore: E/O
Anno: 2013

Cuore Cavo è il secondo romanzo di Viola Di Grado, dopo Settanta acrilico trenta lana, la storia di un conflitto letale tra madre e figlia dentro un'afasica incomunicabilità, che ha fatto guadagnare all'autrice il Premio Campiello Opera prima nel 2011  e l'ha promossa a rivelazione degli ultimi anni. E, a ragione.

La Di Grado ha una scrittura potente, poetica, spiazzante e in questo nuovo e inquietante romanzo ne dispiega tutta la forza.

La storia sorprende fin dall'inizio. Poche righe scarne e, all'apparenza, definitive  che sono invece l'avvio di una straordinaria narrazione.

"Nel 2011 è finito il mondo: mi sono uccisa.
Il 23 luglio, alle 15,29, la mia morte è partita da Catania. Epicentro il mio corpo secco disteso, i miei trecento grammi di cuore umano, i seni piccoli, gli occhi gonfi, l'encefalo tramortito, il polso destro poggiato sul bordo della vasca, l'altro immerso in un triste mojito di bagno schiuma alla menta e sangue".

Da queste righe parte l'invenzione narrativa.  
È infatti la suicida, una ragazza di 25 anni, a raccontare il suo aldilà. Ciò che dentro la morte perdura della vita e il disfacimento orrifico e ributtante del suo cadavere che nella morte è utero accogliente di milioni di vite brulicanti, di insetti, spore, funghi.

"La putrefazione è stato il periodo più triste. È quando sono arrivati gli insetti. La prima squadra, poi la seconda, la terza(...). Mi strappavano i tessuti come carta da parati, finché è emerso il muro tremendo delle ossa.(...) Sono arrivati i dermestes lardarius, poi i necrophorus fumathor. Vandali viscidi con zampe lunghe e scure che non si fermano mai."

In una continuità in cui abbatte la barriera tra vita e morte, noioso tabù occidentale, come l'autrice dichiara in un'intervista, osserva il suo dissolversi corporale raccontandone meticolosamente tutti gli stadi e rivive o, forse, vive per la prima volta, ciò che ha lasciato oltre il nirvana raggiunto, ritornando, liberata dal peso della materia di quando il suo corpo era carne e anima, alle abitudini, agli affetti, ai luoghi.
Cuore cavo è la storia di un suicidio e di ciò che segue. Una folgorante invenzione della vita dopo la morte: la nostalgia, l'amore, la frequentazione "fantasmatica" delle persone care, la solitudine e l'incomunicabilità, in un aldilà cupo e ribollente, senza pelle e senza sensi, dominato da una natura crudele, che sfalda i corpi, ma anche da una vita ostinata che a questa morte si sottrae.
E, mentre Dorotea da viva si nascondeva, viveva la sua infelicità all'ombra di quella della madre, e se ne sentiva responsabile e impotente, mentre medicava la sua paura del mondo da cui si sentiva sradicata e allontanata e lo depurava in un'apatia indotta da farmaci, in quell'oltre indicibile, per il quale Viola Di Grado ha trovato le parole, può ricordare senza tormento ciò che è stata e non sarà più.  
Da quel nulla immateriale che è diventata, osserva com'è da morta, accanto ai vivi che non vuole abbandonare, come se il dissolvimento nella morte le avesse restituito la capacità di provare compassione e condivisione e allo stesso tempo di ricomporre ciò era stata e ciò che è.

"Equivalgo a tutto il resto, come accade a chi non è più nulla. Sono una libera associazione, una figura vuota, un album da colorare. Ma anche se sono uno sguardo volatile fuori dal mio scheletro, posso tornare dentro la mia gabbia toracica quando voglio. Posso stringere il metacarpo e le falangi come quando tenersi per mano era consolante. Posso fare tutte queste cose perché io e il mio scheletro ci amiamo: siamo in una specie di relazione aperta, e io sono gelosa di tutti gli insetti, del vento e della pioggia, dei batteri anaerobi."

Eppure in ogni momento della sua vita e in ogni pagina di questo diario di morta, mentre osserva il disfacimento di esistenze, la sua prima di altre mentre bambina, poi adolescente, infine giovane donna, vive incrostata nelle assenze, nei vuoti, la morte è sempre lì, presenza quotidiana e ricorrente.
 Anche  il suo suicidio è il gesto ricorrente di una genealogia di donne infelici, che coltivano la depressione come un rifugio, e se ne vanno per scelta come ha fatto lei.
L'acqua è il luogo delle morti. Per affogamento, svenamento, dissanguamento. Ma anche acqua come riconsegna al luogo della nascita, come a chiudere il ciclo di un eterno ritorno.

"Sono nata di parto naturale in una vasca da bagno e sono morta di morte innaturale nello stesso posto."

Una grande prova letteraria che si appropria dello splatter in modo ossessivo e ne fa codice non solo linguistico ma restituito al suo significato originario: far vedere le cose nel loro disgregarsi, dissolversi, mostrare l'orrore della corruzione che vive dentro.


mercoledì 22 maggio 2013

IL LIBRO NERO di Horan PamuK recensione di Daniela Frascati




Titolo: Il libro nero
Autore: Ohran Pamuk
Editore: Einaudi
Anno: 2007 (Prima Edizione Originale 1990)
Traduzione: Semsa Gezgin



Il libro nero di Pamuk è un libro difficile, labirintico, notturno, sotterraneo e metaletterario, come sente il bisogno di chiarire al lettore lo stesso Pamuk, in una postfazione di dieci anni dopo. Questo romanzo è infatti "il romanzo" ma anche "la rappresentazione della sua creazione letteraria", tanta è stata la compromissione dell'autore nello scriverlo.
Una stesura durata cinque anni, di cui l'ultimo periodo chiuso in un appartamento vuoto, dentro un palazzo di 17 piani,  nel quartiere di Erenköy, completamente abbandonato alla scrittura, con la paura di perdersi nel labirinto che stava costruendo e la rivelazione che quel labirinto fosse lui stesso e la propria storia.

 «Mi sentivo completamente solo come Galip (forse per riversare nel libro questo senso di perdizione). Romanzi così, cui avete dedicato la vostra esistenza, vi portano passo dopo passo dove desiderano loro, proprio come la nostra vita legata a questo libro.»
Forse proprio per questo, nella sua oscurità, è uno dei libri più affascinanti che si possano leggere, paragonabile all'opera di Borges che, con le sue enciclopediche e incessanti citazioni, pare volerci ricordare che solo nel manifestarsi del paradosso può, forse, affiorare la verità. Come lui, Pamuk, nella costruzione delle innumerevoli narrazioni che attraversano la storia de Il libro nero, sembra dirci che la verità, così come la conosciamo, non è sensata, non procede secondo una logica comprensibile, e ogni cosa è illusione, menzogna, artificio scenico, nella vita come nella letteratura.
Come ne L'uccello che girava le viti del mondo di Murakmi Haruki, anche ne Il libro nero la storia muove dalla scomparsa della moglie del protagonista.
Lì, assieme alla moglie scomparirà anche il gatto di Toru Okada; qui la scomparsa dell'amatissima moglie Rüya svelerà anche la scomparsa di Celâl, il fratellastro di molti anni più vecchio di lei.  
Celâl è un giornalista molto apprezzato che sulla rubrica di un giornale, il «Milliyet», da trentacinque anni scrive, senza saltare un numero, un'interrotta  opera enciclopedica di ricostruzione di Istanbul, attraverso gli oggetti della modernità e gli echi del suo passato.
Così Il libro nero diventa un immenso contenitore di storie, una dentro l'altra, una dietro l'altra, la cui connessione è la spirale di smarrimento e perdita che la sparizione di Rüya sembra portare alla luce  ma, allo stesso tempo, è un giallo dove gli intrecci si aggrovigliano su se stessi e gli indizi, anziché avvicinare la soluzione, la allontanano. 
Rüya, che Galip conosce fin dall'infanzia, se ne va  lasciandogli una lettera d'addio di diciannove parole. Una sorta di enigma scritto con una biro verde. Una biro come quella che Galip aveva perso in mare quand'era bambino durante una gita in barca con Rüya, e che Celâl aveva inserito in una magistrale puntata della sua rubrica sul «Milliyet», dove immaginava tutti gli oggetti che sarebbero venuti alla luce «il giorno che il Bosforo andrà in secca».
Da questa  lettera inizia la ricerca di Rüya e, nello stesso tempo, la ricerca della ragione della sua scomparsa.
Il libro nero è un romanzo che sovrappone, accumula, vive di doppi, di fantasmi, d'identità rubate; dove gli oggetti, le cose della vita quotidiana, come in un sogno hanno una misura fangosa che tira dentro un vortice dove ci si perde. Così Istanbul, le sue strade, i suoi palazzi, i personaggi, sembrano vivere in realtà che si specchiano e si sdoppiano e, imprevedibilmente, s'incontrano tra le pagine del romanzo, assumendo di volta in volta un altro significato, un altro ordine temporale, un'altra dimensione.
«Ogni cosa si rispecchia in un'altra, e tutte le cose e le persone sono contemporaneamente se stesse e la loro replica».
C'è un abisso tra l'Istanbul dell'omonimo romanzo/biografia di Pamuk e questa Istanbul catacombale, fatta di sotterranei reali e di sotterranei dell'anima, di storie stratificate che si chiamano tra loro. Non c'è luogo senza segreti, o architettura che non nasconda un'ombra e ne proietti un'altra.
Dal capitolo diciottesimo: Il pozzo buio

«Molti anni dopo, un pomeriggio, sono andato a rivedere quel palazzo. Avevo percorso quella strada sempre affollata un'infinità di volte, comminando su quegli stessi marciapiedi dove durante l'intervallo di mezzogiorno, si spintonano con la cartella in mano i liceali tutti stazzonati (...) Era una sera d'inverno. Si era fatto buio presto e il fumo dei comignoli era sceso come una nebbia sullo stradone. Le luci accese erano soltanto due, lucine fioche, malinconiche, di due uffici dove si stava lavorando fino a tardi. Per il resto la facciata era nel buio più totale. Tende scure tirate su appartamenti bui, finestre vuote, inquietanti come gli occhi di un cieco. In confronto a ciò che era stata un tempo ebbi l'impressione di una cosa fredda, insignificante, poco piacevole. Non era nemmeno possibile immaginare che un tempo ci avesse vissuto n'estesa famiglia, gli uni sopra gli altri, sempre insieme, pronti ad accapigliarsi,in un'enorme baraonda.   Mi piacque lo stato di abbandono e rovina in cui versava l'edificio (...) Che cosa ne sarà stato del mistero nascosto nella forra che poi è diventato il pozzo di aerazione? E che cosa ne sarà stato del pozzo stesso, con tutto quello che c'era dentro? Mi riferivo al pozzo vicino al palazzo, la cavità senza fondo che di notte provocava brividi di paura e non soltanto a me ma anche a tutti i bambini e gli adulti che abitavano ai diversi piani dell'edificio, Pullulava di pipistrelli, serpenti velenosi, ratti e scorpioni come il pozzo di una favola.»
Il libro Nero è una preziosa e complessa impalcatura letteraria, ma anche una sorta di discesa negli inferi dell'anima.
Conferendo a Orhan Pamuk il Premio Nobel per la letteratura 2006, i membri dell'Accademia svedese hanno scritto che "Il libro nero è un'odissea attraverso un'Istanbul notturna piena di geni e presenze impalpabili, una città dove le storie inventate sembrano più credibili di quelle vere, e la verità è un'ombra sul muro."
Pamuk non rivela o, forse, non può rivelare ciò che sta dentro e oltre la storia. Anzi ogni rivelazione è a sua volta occultamento e sprofondamento in una dimensione onirica eppure iperreale.
«Sì, c'era una volta un principe che aveva scoperto che il problema fondamentale della vita è essere o non essere se stessi, ma quando Galip cominciò a immaginare i colori della storia, si sentì prima trasformare in un altro, poi in uno che si addormenta.»
E come scrive alla fine della sua postfazione: «Perché non c'è nulla di sorprendente come la vita. Tranne lo scrivere. Lo scrivere. Sì, certo tranne lo scrivere, l'unica consolazione che abbiamo.»


mercoledì 27 febbraio 2013

ILIR E GLI EFFETTI SECONDARI DEL VENTO - recensione di Raffaella Galluzzi

















ILIR  E GLI EFFETTI SECONDARI DEL VENTO
di Daniela Frascati
Illustrazioni Mary Villani



Genere: Per ragazzi

Trama:
Sul cucuzzolo di una montagna talmente alta da tagliare le nuvole, viveva il popolo delle Rogaie e il piccolo Ilir. Dopo secoli che quella minuscola gente fuggiva dal mondo smisurato dei giganti Orm, si era alla fine ritirata in cima a quell'alta montagna. In quel posto così alto e così lontano la vita scorreva tranquillamente ma iniziava e finiva lì: tutto il resto del mondo infatti era stato escluso e, sul cucuzzolo della montagna, il popolo di Ilir non aveva idea di cosa succedesse al di fuori del villaggio di Az. Meno male che c'era il vento Bri che raccontava al piccolo Ilir cosa succedeva nel resto del mondo.

Commento:
Ilir è un bambino piccolo piccolo, di appena venti centimetri di altezza, anche se fra i suoi coetanei è il più alto; abita in un mondo ai confini della realtà, sul cucuzzolo di una montagna rocciosa assieme agli abitanti del popolo nomade delle Rogaie, che vive raccogliendo erbe e ghiande. Lì si sono rifugiati tutti per sfuggire al gigantesco popolo dei giganti Orm, che sta radendo al suolo i boschi con le sue terribili creature di ferro, lasciando intorno solo deserto e desolazione.
Lassù il vento la fa da padrone, soprattutto Bri, il gelato vento del nord che per mesi e mesi sibila attraverso le fessure e le imposte delle abitazioni. Ilir scopre di avere lo stesso dono di una sua antenata, quello di capire le parole del vento. E così, durante quelle interminabili notti gelide, nessuno si nasconde più impaurito sotto i piumoni e le lenzuola, ma tutti si seggono attorno ad Ilir ad ascoltare i racconti del vento. Attraverso quei racconti conoscono un mondo che altrimenti sarebbe rimasto loro totalmente estraneo. E pare che i piccoli abitanti delle Rogaie, se ne stiano ancora lì, saldamente attaccati alla loro roccia, appagati di guardare dall'alto e da lontano il mondo, almeno finché Ilir sarà capace di farli sognare sulle ali del vento o fino a quando la curiosità di sapere e vedere con i propri occhi saprà vincere ogni timore.
Ilir e i suoi amici imparano ad interpretare il mondo e la natura ed a non temere il vento gelido e capriccioso dell'inverno, anzi, attraverso di esso, conoscono un mondo del quale non sospettavano nemmeno l'esistenza. Così anche il lettore di questo breve racconto, imparerà a non aver paura, a non temere l'ignoto e la diversità, ad aprirsi alla novità. Perché, come dice Bri, se non fossi qui a raccontarli con le parole di Ilir, quei luoghi che io attraverso non li vedreste mai. Non sapreste che il mondo e la gente è diversa eppure eguale in ogni parte della terra e, anche se in ogni luogo ha usanze e storie diverse, gli uomini piccoli o grandi, sono simili ovunque. Tutti devono mangiare, lavorare assieme per costruire città, e dividere tra loro la terra e le cose che producono se vogliono stare in pace. E, dunque, io vi porto le memorie e le storie di altri popoli e di altre genti perché sappiate che il mondo è di tutti anche di chi come voi vive in questa piccola città di Az, in un posto sperduto e solitario. Perché il mondo tanto grande faccia parte della vostra vita come fosse un interminabile sogno ad occhi aperti.
Un bellissimo messaggio d'amore e solidarietà che trova una concreta trasposizione anche nelle poetiche illustrazioni di May Villani.
 Età di lettura: 0-99 anni.
(Raffaella Galluzzi)

Della stessa autrice:
Nuda vita
Amori anomali 


domenica 17 febbraio 2013

IN CUCINA CON LO SCRITTORE: Daniela Frascati

http://it.paperblog.com/in-cucina-con-lo-scrittore-daniela-frascati-nuda-vita-e-le-prince-noir-1638269/



IN CUCINA CON LO SCRITTORE  Daniela Frascati
- Nuda Vita e Le prince Noir

Creato il 11 febbraio 2013 da Gnoma



Oggi salutiamo e ringraziamo l‘autore  Daniela Frascati - Nuda Vita – ed. Absolutely Free 2011, e l’antologia Le Prince Noir ed. Aìsara uscita in questi giorni - per averci aperto la porta della sua cucina.  

NUDA VITA - Delfina è una ragazza in coma a seguito di un incidente, chiusa in quello stato che i medici definiscono minimal responsive. Attorno a lei i personaggi che hanno fatto parte della sua vita e che cercano di riportarla alla coscienza. Ma ognuno di loro è prima di tutto a se stesso che parla, mettendo a nudo le meschinerie e le paure che stanno a fondamento di ogni relazione, in una rappresentazione della normalità che sconfina pericolosamente con il suo opposto, quella sottile e banale follia del quotidiano in cui siamo immersi. Fuori Delfina, un succedersi di storie e di colpi di scena. Dentro, l'inquieto vaneggiare di Delfina in attesa del risveglio. Ma se fosse proprio lei a non voler aprire gli occhi?
Le Prince Noir - Omaggio ad André Héléna Dodici gli scrittori italiani  (tra questi ci sono anch’io) che, ispirandosi ai romanzi più celebri del Principe scomparso quarant’anni fa, hanno messo a disposizione la loro creatività per raccontare storie tendenzialmente “forti”. Tra omicidi, prostituzione e ricatti, dunque, non resta che lasciarsi catturare dalle vicende torbide rielaborate dai nostri dodici autori.
La prima domanda di rito è: le piace mangiare bene? E cucinare? 
- A chi non piace mangiare bene!? Certo. E ai fornelli non me la cavo male.
Lo fa per dovere o per piacere? 
- Ora che vivo sola, lo faccio certamente per piacere. Nel senso che, non dovendo approntare cene e pranzi quotidianamente, quando ne ho voglia mi coccolo con i piatti che mi piacciono di più.
Invita amici o è più spesso invitato? 
- Non saprei fare una statistica. Dipende dai periodi e dalle occasioni.
Ha mai conquistato amici o un uomo cucinando? 
- Gli amici mi fanno i complimenti e mangiano con appetito; e non ho mai indagato se le mie conquiste maschili nascessero da ciò che cucinavo. Spero fossero legate soprattutto ad altro. Non per sminuire la buona cucina, ma…
Vivrebbe con  un compagno che non sa mettere mani ai fornelli? 
- Già fatto!
Quando ha scoperto questa sua passione? 
- Definirla passione è un po’ troppo. La passione è qualcosa di travolgente e irresistibile. Mi piace cucinare e mi ci dedico se ho amici a cena, o i miei figli, o se ho voglia di un piatto particolare.
Ci racconta il suo primo ricordo legato al cibo? 
- Mi hanno sempre detto che da bambina ero famelica e quando ero molto piccola dovevano imboccarmi in due per evitare che strillassi tra una cucchiaiata e l’altra. Il mio primo ricordo, invece, è legato a un piatto che detestavo. Il brodo. Mi sono rifiutata di assaggiarlo fino all’età di sedici anni. Poi ho cambiato idea.
Ha un piatto che ama e uno che detesta? 
- Il cibo che detesto, per il quale provo quasi repulsione, sono le uova dei pesci, tipo uova di storione, di caviale, e in genere tutti i piatti “granulosi”, anche il cus-cus. Di piatti che amo ce ne sono troppi. Primi piatti e dolci, in maniera indiscriminata.
Un colore dominante proprio di cibi che la disgustano? 
- Non ho disgusti legati al colore del cibo. Qualche volta  è la presentazione del piatto, soprattutto al ristorante o quando sono ospite, che mi lascia perplessa e forse anche prevenuta.
Quando è in fase creativa ha un rito scaramantico legato al cibo? Prende caffè? O tè, o una bibita speciale che l’aiuta a scrivere
- Quando sono in fase creativa prendo caffè, tè, mangio yogurt, budini, pistacchi, dolcetti…
Scrive mai in cucina? 
- Ho un cucinotto ben attrezzato e non c’è un tavolo. Ma non mi è mai piaciuto  scrivere in  cucina.
Dove ama scrivere? e a che ora le viene più naturale? 
- Scrivo nella mia camera che è anche uno studiolo. Scrivo soprattutto il pomeriggio e la notte. Mai la mattina. Ho il cervello scollegato.
Si compra cibo pronto ( tramezzini, pizza, snack) o si cucina anche quando è molto presa dalla scrittura? 
- Qualche volta a pranzo mi compro la pizza, il mio fornaio ne ha di tutti i tipi e  gusti. Ma anche cose dolci. Indipendentemente da se scrivo o no, il mio pasto principale è quello della sera. La cena me la preparo anche quando sono presa dalla scrittura.
Che tipo di cibo desidera di più quando scrive, salato o dolce? 
- I dolci mi piacciono sempre, ma sgranocchio anche cose salate, molto meno, però.
Lei è uno scrittore di narrativa generale, quando esce a cena con i suoi amici  che tipo di locale preferisce? 
- Mi piacciono i locali semplici e sono abitudinaria. Vado dove so che cucinano bene e posso fidarmi. Detesto la cucina cinese e amo la cucina giapponese. 
Cosa tende a ordinare in un locale? 
- Mi lascio ispirare dal menù e non rinuncio mai al dolce.
Nelle sue presentazioni offre un buffet? Pensa sia gradevole per gli ascoltatori intervenuti? Tende a fare un aperitivo con due olive e patatine o a offrire quasi un pasto completo? 
- Dipende dal luogo della presentazione e dal tipo di pubblico.
Ha mai usato il cibo in qualche storia? 
- In quelle che ho finora pubblicato no, ma ho un romanzo in progress dove il cibo è uno dei protagonisti.
Ad esempio in  “Nuda Vita” ci sono passi che ricordano cibi o profumi di cibo? Il cibo è mai protagonista? 
- No in questo romanzo niente cibo.    
“Nuda Vita” a che ricetta lo legherebbe, e perché? 
- Mi viene in mente un bel tiramisù, ma detto così e vista la vicenda sembra quasi grottesco. E invece, no. È una storia forte che ha bisogno di dolcezza.
Per concludere ci potrebbe regalare una sua ricetta? Quella che le riesce meglio? 
- Non è quella che mi riesce meglio ma è semplice, veloce e squisita.
GALLETTI AL BRANDY  Semplice. Si prendono due galletti aperti,  si salano, si aggiunge pepe, un pò di cumino, anche una spruzzata di ariosto e si  lasciano a macerare nel brandy o nel cognac per qualche ora, meglio tutta una notte. Poi si infornano a 200°, aggiungendo olio e aggiustando il sale. Fanno tutto da soli e diventano buonissimi.
Quale complimento le piace di più come cuoco? 
- Direi quando mi chiedono la ricetta. Vuol dire che è piaciuta sul serio!
E come scrittore? 
- Il tuo romanzo l’ho DIVORATO!
Che frase tratta dalla sua opera o dalla sua esperienza di scrittore possiamo portarci nel cuore uscendo dalla sua cucina? 
- Per essere in tema di cucina, una ricetta da non portare nel cuore e neanche nel piatto - tratta dal mio romanzo in progress dal titolo provvisorio Amanita Phalloides – un fungo velenosissimo - che lascia capire come il cibo a volte può essere una magia – “Aspasia, poggiata al pesante tavolo di marmo, lo guardava mandare giù, con riluttanza, le prime cucchiaiate di minestrone. - È una mano santa per chi è intossicato da cattivi pensieri, la crema di Smirno: erbe cotte in acqua con sali d’ammonio, minutamente tagliate e condite con pepe, ligustico, cipolla e santoreggia secca. Poi si aggiunge olio, vino e la mia salsa segreta. Senti già come il sangue fluisce calmo dentro il tuo corpo. Ora devi abbandonarti alle delizie dell’oca in salsa apiciana.”
Grazie per la sua disponibilità   

sabato 16 febbraio 2013

L'Angelo di Hitler di William Osborne

http://www.i-libri.com/langelo-di-hitler-di-william-osborne.html


L'Angelo di Hitler di William Osborne
Recensione di Daniela Frascati


Titolo: L'angelo di Hitler
Autore: William Osborne
Editore: Sonda
Anno: 2012
Età di lettura: Dai 13 anni
L’Angelo di Hitler nasce come libro per ragazzi ma appassionerà certamente anche lettori più maturi.
William Osborne è alla sua prima prova come romanziere. Questa storia, però, non ha nulla delle incertezze e delle ingenuità dell’esordiente.
Sceneggiatore a Hollywood fin dalla metà degli anni Ottanta, dopo una laurea in legge presa a Cambridge, è stato autore di decine di film, tra i quali titoli di successo come "Sfida tra i ghiacci" (2001) e "Il re scorpione" (2002). Da questa sua esperienza ha mutuato la capacità di raccontare per immagini, trattenendo i lettori incollati alla pagina proprio come di fronte a una pellicola d’azione.
Continui colpi di scena, inseguimenti mozzafiato, dialoghi incalzanti quanto realistici, uniti a una sensibilità particolare nell’indugiare sulle emozioni e i dilemmi di tre ragazzini, appena adolescenti, coinvolti in una vicenda più grande di loro, ne fanno una storia di facile lettura e allo stesso tempo avvincente.
Siamo nell’Europa del 1941, nel pieno della Seconda Guerra Mondiale e Hitler è all’apice del potere. Otto e Leni, un ragazzo e una ragazza quattordicenni, riescono a fuggire in Gran Bretagna dopo che le loro famiglie sono state catturate dalle SS; quella di Leni perché ebrea, quella di Otto perché comunista.
Verranno scelti, con molto cinismo malgrado la giovane età, per la conoscenza del tedesco e le capacità dimostrate durante la loro avventurosa fuga, dall’ammiraglio MacPherson, il braccio destro di Churchill, per essere paracadutati in Germania in una missione che segnerà per sempre le loro vite e che potrebbe cambiare il corso della storia: rapire e consegnare agli inglesi Angelika, una ragazzina come loro, confinata in un convento della Baviera, la cui esistenza racchiude un terribile segreto.
Attraverso varie peripezie e atti di coraggio riescono a trarla fuori dal Convento e a scappare con lei in un’avventura che si farà ancora più rischiosa e incerta, perché costretti ad abbandonare il percorso pianificato dall’Intelligence inglese e a contare solo sulla loro abilità e ingegno. Scoperti e intercettati, e da Reinhard Heydrich e dalla sua squadra speciale, grazie ai poteri di un personaggio davvero suggestivo, realmente vissuto, Heydrich Straniak, sensitivo e astrologo, membro dell’Istituto del Pendolo, la branca delle SS dedita all’occultismo, in grado di rintracciare chiunque col solo aiuto di una mappa e di un pendolo, riusciranno ancora una volta salvarsi e anche se malconci proseguire la loro fuga attraverso una Germania messa a ferro e a fuoco.
In questo attraversamento dove la morte li attende ad ogni angolo, cominciano a prendere coscienza di come il destino di Angelika sia nelle loro mani e come questa ragazzina, inconsapevole del segreto che sovrasta la sua vita, sia per gli inglesi poco più di un oggetto, anche se prezioso, una semplice pedina nel gioco della guerra. Una logica alla quale i due ragazzi rifiuteranno di accondiscendere poiché, in questa storia carica di tensione e di adrenalina, sono anche altre le emozioni e i sentimenti che lo scrittore vuole suscitare tra i giovani lettori a cui il libro è rivolto. Così il coraggio, l’amicizia, la solidarietà sono valori fondamentali grazie ai quali i due adolescenti riusciranno a uscire salvi da questa avventura tanto più grande di loro, con la consapevolezza che la giustizia e la dignità delle persone, valgono più ogni altra cosa.