IMMAGINALE di Daniela Frascati
amorino alato
sabato 15 ottobre 2016
domenica 6 ottobre 2013
PASSATA È
LA TEMPESTA: L’IMMIGRAZIONE E’ MOLESTA
di Daniela Frascati
La
tragedia di Lampedusa è un ECCIDIO, un eccidio dei criminali del potere
economico che governano vecchi e nuovi colonialismi ed esportano non democrazia
– se questa parola ha ancora un senso – ma guerre e false rivoluzioni.
Per
qualsiasi testa pensante è impossibile credere che in un mare militarizzato
come il sud del Mediterraneo, attraversato da navi da guerra di ogni
nazionalità, da sottomarini e chissà cos’altro,
perennemente sottoposto al monitoraggio
di satelliti di ogni genere, nessuno abbia visto e veda, a ogni tragedia
che si ripete, i barconi della disperazione che salpano da porti che tutti sanno.
È una tragedia
voluta, messa in conto da un’Italia e un'Europa concepite sulle direttive di una capitalismo
finanziario senza limiti né misure, che produce
disuguaglianze materiali e simboliche e getta nell’immondezzaio della
Storia tutto ciò che non si adatta al
nuovo ordine che avanza.
Il
trattamento riservato ai migranti ha
molto a che vedere con le carestie, la fame, l’impoverimento idrico e
ambientale, con la volontà di annientamento di
interi popoli e l’espropriazione
dei loro territori, che questi uomini e donne vivono nelle loro terre d’origine. E
come rifiutiamo di vedere il nostro
benessere di rapina, allo stesso modo,
nella più immorale indifferenza, ci tappiamo gli occhi di fronte ai ghetti di
miseria e di degrado che sono, per dirla con un'espressione forte, tanti Auschwitz
disseminati nella modernità, dove li rinchiudiamo quando arrivano vivi nel
nostro paese. Quei centri di detenzione coatta chiamati eufemisticamente, Centri
d’accoglienza, voluti dalla legge Turco Napolitano e consolidati dalla Bossi
Fini a cui, nel momento della vergogna e della tragedia, le stesse istituzioni
che li mantengono, fingono di opporsi.
Viviamo nel nucleo di un capovolgimento epocale,
nel disfacimento degli stati nazione e, in Europa, di quelle socialdemocrazie sconfitte come il comunismo dalla storia, nel
pieno di una devastante omologazione all’unico ordine incardinatore
del mondo, intreccio inestricabile e mostruoso tra poteri economici,
finanziari, criminali. Viviamo
con la scimmia addosso della del Fondo monetario delle varie troiche.
C'è un
senso comune che trasmigra dal potere politico nelle nostre vite che accantona qualsiasi pensiero critico e si accontenta di gestire
l'esistente ritenendosi appagato e soddisfatto quando il conflitto si sottrae
alla vista e ognuno chiude oltre la propria soglia l’orrore maleodorante della
miseria, della vecchia, delle
solitudini degli altri. Poiché l'orrore è scardinante e pericoloso e va
tenuto a bada, guardato asetticamente dallo
schermo televisivo.
A tutto questo si risponde sollecitando gli
istinti più primitivi di tribalismo etnico. Facendo intravedere,
come in uno specchio deformante,
quella povertà e
quell'emarginazione in stretta
contiguità con la propria esistenza che su un
piano inclinato scivola sempre più pericolosamente verso l'assenza di
riconoscimento sociale, la disoccupazione, la perdita di potere di acquisto dei propri salari, il diritto
alla casa; verso una vecchiaia di solitudine e
disperazione.
Il conflitto è ormai attaccato ovunque e depotenziato. Da tempo la stessa sinistra
lo avverte come un pericolo per
la crescita economica e per
il cosiddetto benessere collettivo e in
questo contesto le parole e gli atti che possono generarlo e portarlo alla luce sono esecrati come marginalità
terrorista, così come avviene per le occupazioni che rivendicano il diritto
alla casa o per la Tav, così come sta avvenendo per Erri De Luca che se ne fa
portavoce .
Tutto
questo nell’assoluto silenzio delle nostre voci e delle nostre coscienze.
Tutto questo qui in occidente, in
questo occidente dove l’Io, i leader, i papi, gli imperatori, i duci, gli
autocrati, i tiranni, hanno tirato la volata a quell’aberrazione di pensiero unico
in cui siamo naufragati, incardinati dentro ideologie nate nella pancia del
capitale, così rinserrate dentro l’ordine monoteista del padre, di cui la forma
economica della società capitalista è il
capolavoro sublime. Non sembri una bestemmia ma paradossalmente è così; questo
mondo osceno e terribile, carico di sofferenze materiali, di morte, di guerra,
che dilania le speranze e la voglia di futuro, questo mondo qui altro non è che il compimento della gerarchizzazione interiorizzata
dell’occidente - nello splendore di ciò che è stato capace di produrre con la
bellezza dei suoi capolavori, con la grandezza del suo pensiero, con l’opulenza
dei suoi beni materiali e non solo - di
comprendere la dualità, la
diversità, l’alterità come dinamica, come spostamento oltre il sé, come condivisione
del mondo.
mercoledì 7 agosto 2013
NUDA VITA – Un commento/recensione di Silvia Longo
Ho
un romanzo, da qualche giorno, tra le mani. L’ho letto con lentezza voluta,
come si deve a un libro scritto con così tanta cura: “Nuda vita” di Daniela Frascati, Absolutely Free Editore.
Narra la storia di Delfina, una ragazza in coma da alcuni mesi. In particolare, si trova in quello stato che i medici chiamano minimal responsive, e nel quale il soggetto a volte risponde alle stimolazioni provenienti dall’esterno, dimostrando – sebbene non con certezza assoluta e in maniera discontinua – di essere in qualche modo cosciente di quanto lo circonda. Potrebbe addirittura svegliarsi, e in qualsiasi momento.
Al capezzale di Delfina si alternano in visita parenti, amici, il fidanzato, una fisioterapista capace di grande empatia. Con il loro agire e parlare, creano un vero e proprio teatro della vita, sul cui proscenio ogni personaggio mette a nudo le proprie fragilità, il coraggio, le piccinerie, la disposizione all’ amore vero, le paure segrete. Tra tutti spicca il personaggio di Fiore, madre di Delfina, donna che intende la vita come una battaglia continua, e che fatica più di chiunque altro ad accettare le condizioni il cui la figlia versa.
Molti di loro tentano di stimolare Delfina, toccandola, parlandole, facendole magari respirare un profumo. Cercano cioè di utilizzare il meccanismo dei sensi e della memoria per riportarla da questa parte della vita. Delfina, però, si arrocca in una dimensione tutta sua. Un Altrove in cui si rintana sempre più in profondità, come felicemente dimentica di tutto. Un nascondiglio morbido che Delfina sente di dover rafforzare e portare alla perfezione dell’inespugnabilità, perché a volte gli stimoli dall’esterno tentano di ricondurla al proprio corpo. È dalla nostalgia per la vita che deve difendersi, dalla dolcezza di certe memorie, per restare in quella nicchia che scopre lentamente in ogni dettaglio. Lì, concentrata su se stessa, e sul proprio sonno nel quale si identifica, sa che
“fuori c’è dolore e dispersione. Per questo, prima, ero sempre e ovunque inconclusa e affamata d’amore”.
Sorge graduale il sospetto che Delfina non voglia svegliarsi. Che preferisca lo sprofondo progressivo in quella dimensione di latenza. Qualcosa della sua esistenza trascorsa deve averla delusa, umiliata, ferita a morte per condurla a tale arrocco. Tutto ciò verrà svelato nel corso della narrazione, serratissima, che alterna capitoli in cui Delfina parla con se stessa, in un soliloquio di rara compiutezza formale, a capitoli in cui un narratore esterno ci presenta i vari visitatori della giovane e le loro maniere, attraverso un uso sapiente del dialogo.
Il finale è un “colpo di coda”: sorprende davvero, perché è lontano mille miglia dalla rosa di conclusioni possibili che il lettore può aver immaginato.
Questo romanzo ci offre una visione disincantata della vita (definita “nuda”, per l’appunto), ma è denso di compassione. Non vi si riscontra giudizio alcuno, da parte dell’autrice, né l’intento di catturare il lettore con scaltri espedienti di mestiere. Si percepiscono semmai una grande dedizione e un rispetto autentico per la letteratura. È quello che io amo definire un romanzo onesto, negli intenti e nella forma. Daniela Frascati dimostra di conoscere bene la pasta con cui è forgiata l’umanità, e di sapere cosa siano il dolore, il disincanto, l’amore. E, soprattutto, di saper scrivere con precisione, con densità di senso, con passione e cura del dettaglio.
Più di un passaggio mi ha colpito per nitore e bellezza. Questo è solo un assaggio, una piccola perla di dolore descritto a meraviglia:
“Anche la mia sofferenza è di ottima fattura. Così perfetta che non ne esco mai. Neanche nell’amore, o quando credo di essere amata”.
Narra la storia di Delfina, una ragazza in coma da alcuni mesi. In particolare, si trova in quello stato che i medici chiamano minimal responsive, e nel quale il soggetto a volte risponde alle stimolazioni provenienti dall’esterno, dimostrando – sebbene non con certezza assoluta e in maniera discontinua – di essere in qualche modo cosciente di quanto lo circonda. Potrebbe addirittura svegliarsi, e in qualsiasi momento.
Al capezzale di Delfina si alternano in visita parenti, amici, il fidanzato, una fisioterapista capace di grande empatia. Con il loro agire e parlare, creano un vero e proprio teatro della vita, sul cui proscenio ogni personaggio mette a nudo le proprie fragilità, il coraggio, le piccinerie, la disposizione all’ amore vero, le paure segrete. Tra tutti spicca il personaggio di Fiore, madre di Delfina, donna che intende la vita come una battaglia continua, e che fatica più di chiunque altro ad accettare le condizioni il cui la figlia versa.
Molti di loro tentano di stimolare Delfina, toccandola, parlandole, facendole magari respirare un profumo. Cercano cioè di utilizzare il meccanismo dei sensi e della memoria per riportarla da questa parte della vita. Delfina, però, si arrocca in una dimensione tutta sua. Un Altrove in cui si rintana sempre più in profondità, come felicemente dimentica di tutto. Un nascondiglio morbido che Delfina sente di dover rafforzare e portare alla perfezione dell’inespugnabilità, perché a volte gli stimoli dall’esterno tentano di ricondurla al proprio corpo. È dalla nostalgia per la vita che deve difendersi, dalla dolcezza di certe memorie, per restare in quella nicchia che scopre lentamente in ogni dettaglio. Lì, concentrata su se stessa, e sul proprio sonno nel quale si identifica, sa che
“fuori c’è dolore e dispersione. Per questo, prima, ero sempre e ovunque inconclusa e affamata d’amore”.
Sorge graduale il sospetto che Delfina non voglia svegliarsi. Che preferisca lo sprofondo progressivo in quella dimensione di latenza. Qualcosa della sua esistenza trascorsa deve averla delusa, umiliata, ferita a morte per condurla a tale arrocco. Tutto ciò verrà svelato nel corso della narrazione, serratissima, che alterna capitoli in cui Delfina parla con se stessa, in un soliloquio di rara compiutezza formale, a capitoli in cui un narratore esterno ci presenta i vari visitatori della giovane e le loro maniere, attraverso un uso sapiente del dialogo.
Il finale è un “colpo di coda”: sorprende davvero, perché è lontano mille miglia dalla rosa di conclusioni possibili che il lettore può aver immaginato.
Questo romanzo ci offre una visione disincantata della vita (definita “nuda”, per l’appunto), ma è denso di compassione. Non vi si riscontra giudizio alcuno, da parte dell’autrice, né l’intento di catturare il lettore con scaltri espedienti di mestiere. Si percepiscono semmai una grande dedizione e un rispetto autentico per la letteratura. È quello che io amo definire un romanzo onesto, negli intenti e nella forma. Daniela Frascati dimostra di conoscere bene la pasta con cui è forgiata l’umanità, e di sapere cosa siano il dolore, il disincanto, l’amore. E, soprattutto, di saper scrivere con precisione, con densità di senso, con passione e cura del dettaglio.
Più di un passaggio mi ha colpito per nitore e bellezza. Questo è solo un assaggio, una piccola perla di dolore descritto a meraviglia:
“Anche la mia sofferenza è di ottima fattura. Così perfetta che non ne esco mai. Neanche nell’amore, o quando credo di essere amata”.
martedì 23 luglio 2013
SCRIVERE DONNA Intervista a Daniela Frascati di Laura Costantini
Daniela
Frascati, vive a Roma ed è nata in Toscana, ad Abbadia San Salvatore. Ha un figlio e una
figlia, i suoi “sole e luna” e cinque gatti. Da anni impegnata nel sociale, con
attenzione alle politiche della differenza di genere, ha ideato e condotto una
trasmissione radiofonica “Il pane e le rose” sulla cultura e il pensiero
femminista. Andiamo a conoscerla.
- Quando
hai deciso di scrivere e perché?
Sono da sempre una grande lettrice e chi legge
finisce prima o poi anche per tentare la scrittura. Da ragazzina lo facevo per
gioco; scrivevo con un’amica sceneggiature teatrali che poi provavamo a
rappresentare per un pubblico di amici e di compagni di scuola. Solo molto più
tardi scrivere è diventata una parte importante della mia vita, un modo per
raccontare il mondo parallelo e contiguo alla realtà che vive con noi e poi,
ancora dopo, è arrivato il desiderio di provare a pubblicare.
- Che tipo
di libri leggi normalmente?
Leggo molto, soprattutto quella che viene definita
narrativa generale e che molto spesso è invece un buon mix di generi che si
attraversano seguendo il disegno dell’autore. Non amo la narrativa di genere in
senso stretto, ma se la storia mi prende e la scrittura non è banale e fatta di
luoghi comuni, non mi tiro indietro.
- Hai mai
preferito un libro a un altro per il genere dell’autore?
Spesso ho preferito un libro per il suo autore.
- Hai mai
avuto la sensazione che il tuo essere donna potesse, in qualche modo,
ostacolare/favorire la tua passione per la scrittura?
No, essere donna, avere il peso di molte dimensioni
contemporaneamente, il lavoro, quando c’è, l’accudimento dei figli, la cura dei
familiari, una vita affettiva piena, sono fatiche che incombono sulla maggior
parte delle donne; molto spesso la scrittura è un modo per superare queste
fatiche e crearsi uno spazio intimo dal quale tutto questo riesce a rimanere,
per qualche ora, al di fuori. Il desiderio di ogni donna che scrive sarebbe la
famosa Stanza tutta per sé, della Wolf, luogo simbolico, ma anche fisico.
Forse, oggi, è più difficile trovare lo spazio e il tempo materiale, che non
quello metaforico della libertà di scrivere.
- Ritieni
esista e sia individuabile una scrittura al femminile?
Ritengo che ci sia una specificità della scrittura
femminile legata a sensibilità e modi di rapportarsi al mondo. Il fatto che le
donne subiscano ancora il carico di un’infinità di incombenze quotidiane, che
per educazione e cattive abitudini sociali e culturali gravano ancora sulle
loro spalle, le rende capaci di una visione più complessa e articolata della
realtà. Le donne sanno fare più cose contemporaneamente e non dimenticano mai
l’investimento emotivo che questo fare comporta. Ma ci sono anche scrittrici
che scelgono, consapevolmente, di partire dalla differenza di genere e, nelle
loro storie, questo sguardo “eccentrico” sul mondo conta e conferisce spessore
e forza narrativa. Penso, per esempio, a una grande autrice come Tony Morrison.
Poi c’è una letteratura considerata minore, quella
rosa ma anche il Romance, e quest’ultimo, in particolare, è
appannaggio quasi esclusivo di scrittrici donne e, pur rinchiuso in un recinto
di genere, in questo caso letterario, diventa anche di genere femminile.
- Ritieni
esista un pregiudizio nei confronti di un’autrice da parte dei lettori uomini?
Spero di no, gli uomini leggono molto meno delle
donne e spero non si pongano anche interdizioni di genere.
- Hai mai
avuto la sensazione di una preclusione editoriale nei confronti delle donne?
Purtroppo l’editoria ha molte altre preclusioni. Sappiamo
tutte e tutti quanto sia difficile arrivare sulla scrivania di un editor o di
una buona casa editrice ed essere letti. Credo che i manoscritti vengano
gettati al macero senza distinzione del sesso dell’autore.
- Storie
d’amore nei romanzi, pensi sia una roba da donne?
Ci sono storie d’amore che sono alta letteratura. L’amore ai tempi del colera, di Marquez
è il primo romanzo che mi viene in mente, ma anche L’amore, o l’altro romanzo di Margherite Duras, Storie di amore estremo. Sono narrazioni
dove l’amore è inteso come dimensione esistenziale e filo conduttore nella
trama di una vita. Purtroppo la letteratura rosa, come molte altre narrative di
genere, vive di cliché da cui sarebbe bene che le stesse autrici si
liberassero. Si possono raccontare storie di sentimenti e d’amore anche senza
le solite cornici edulcorate e, spesso, irreali.
- È
possibile, a tuo parere, una collaborazione tra scrittrici così come si
configura tra scrittori nella creazione di movimenti letterari (New Italian
Epic o TQ, per esempio)?
Lo auspicherei davvero. Unire le forze, scambiarsi
esperienze e costruire un percorso comune di pensiero può diventare un punto di
forza, anche mediaticamente.
- Molte
donne lamentano la difficoltà di dedicarsi quanto vorrebbero alla scrittura e i
sensi di colpa per la necessità di trascurare altre cose. Tu come ti poni?
Non ho mai nutrito sensi di colpa nei confronti del
tempo dedicato alla scrittura e alla lettura. Intanto perché scrivo e leggo
soprattutto la notte, da sempre mi bastano 5/6 ore di sonno, e poi credo che il
tempo dedicato a sé sia un obbligo verso noi stesse e giova anche ai rapporti
interpersonali e familiari.
- Cosa ne
pensi dei fenomeni editorial-marketing degli ultimi anni e della fruizione
soprattutto femminile che li caratterizza?
Si legge troppo poco e gli editori sono costantemente
alla ricerca di fenomeni letterari che facciano vendere. Il richiamo sessuale,
soprattutto se l’autrice è donna e non si nasconde dietro pseudonimi vari,
funziona sempre. Non ci sarebbe bisogno, però, di sminuire la letteratura
erotica a livello di sfumature banalizzate in rapporti di maniera, senza alcuno
spessore emozionale. Ci sono scrittrici erotiche e letteratura di genere, anche
in questo campo, di altissimo livello. Anaïs Nin e il suo Il delta di Venere, scritto negli anni
quaranta, o Una spia nella casa
dell’amore, tanto per citarne un paio, ne sono un esempio, ma questa è
davvero letteratura. Mi sembra che, da parte degli editori, questa opzione vada
nella scia di una costante scelta al ribasso, per un pubblico di bocca buona,
reso sempre più insensibile alla qualità. Quando la cultura diventa un bene di
consumo usa e getta e non un processo di consapevolezza e di arricchimento, il
senso critico e il piacere estetico sono sempre meno necessari e richiesti.
- Come ti
porresti davanti alla proposta di entrare nel ciclo produttivo del soft-porn?
Come ho detto dipende dalla qualità della scrittura e
da ciò che sta al cuore della storia. La sessualità è una dimensione complessa
e anche difficile e scabrosa da trattare, non nel senso puritano del termine,
ma nel complesso ruolo che gioca nella personalità di ognuno. Banalizzarla mi
sembra riduttivo. La passione del corpo, la sessualità, non sono solo
epidermico piacere, non sono un mordi e fuggi, ma qualcosa di avvolgente e di
profondo che aiuta a crescere, a conoscersi, a conoscere il mondo.
- Pubblicare purché sia è un principio da perseguire?
Dipende dalle scelte di ognuno. Certo, con la penuria
di editori che ci sono in giro, non mi stupirei che ci fosse un boom di
scrittrici che si dedicano a raccontare scopate edulcorate!
- Come ti
poni davanti al dilagare dei fenomeni editoria a pagamento, print on demand o
self-publishing?
Pubblicare un libro a proprie spese non è mai un
vantaggio. Intanto perché l’editore a pagamento ha già guadagnato sul suo
“prodotto” e non ha alcun interesse a investire per promuoverlo e diffonderlo.
Poi, nel lettore acquirente, può legittimamente sorgere il dubbio che dietro un
libro così pubblicato il talento sia un optional, e spesso è così; ma, a volte,
autori anche validi incappano in questi editori/stampatori sperando che possano
essere un’opportunità per farsi conoscere. È esattamente l’opposto.
Il self-publishing può essere un’alternativa per non
cadere nelle grinfie di questi editori e molti degli scrittori che si
autoproducono lo fanno perchè convinti sia più conveniente, non solo per i
possibili lettori ma anche per il loro profitto. Io continuo a credere che un
libro sia non solo frutto della creatività e della capacità del solo autore ma
sia un lavoro collettivo e complesso dove ogni intervento dei professionisti
dell’editoria porta al risultato finale che è il libro. La qualità editoriale,
dalla grafica all’impaginazione alla carta, è parte integrante del risultato.
Anche da questo si riconosce un vero editore. I libri vanno amati, da chi li
scrive e da chi li pubblica. È sgradevole trovarsi sotto gli occhi refusi,
ripetizioni e un’impaginazione approssimativa come spesso accade con il
self-publishing .
- Cosa
ritieni che possa far la differenza nell’attirare un lettore: copertina,
titolo, autore personaggio, passaggio televisivo o D’Orrico che si innamora di
te?
L’investimento dell’editore, che significa cura
dell’edizione e della scelta del titolo, della copertina. Sicuramente un
passaggio televisivo in alcune trasmissioni è una bella spinta. Personalmente,
non credo potrei contare su D’Orrico: ho superato l’età in cui folgorare gli
uomini, tanto meno i critici, con l’avvenenza fisica.
- Quali
tuoi buoni propositi salterebbero davanti a un improvviso successo?
Credo nessuno. Del resto non ho buoni propositi ma
un’idea di me che non è venuta meno in passaggi difficili della mia vita. Un
improvviso successo mi gratificherebbe molto e penserei che, a volte, i sogni
non sono solo desideri.
- Sei
autrice del bestseller del momento, tradotta nel mondo, milioni di copie:
togliti uno o più sassolini dalla scarpa.
Non ho sassolini nelle scarpe, se fosse così non
riuscirei nemmeno a camminare. L’invidia e l’arroganza non mi piacciono, penso
che avvelenino la vita e non facciano gustare nemmeno i successi.
- Scrittore/scrittrice preferito/a vivente e motivazione.
- Una scrittrice vivente che amo molto l’ho già
nominata: Tony Morrison. È strano che, per quanto abbia anche ricevuto il
Nobel, in Italia sia poco conosciuta e apprezzata. È una narratrice complessa e
non facile. Non tanto nella scrittura, che è sempre forte e travolgente, ma
nella durezza delle storie che racconta. Lei è un’afroamericana ed è donna, e
il sentimento di questa condizione attraversa tutte le sue opere e offre un
punto di vista di genere sulla cultura e la storia della società americana.
Uno scrittore del quale ho letto tutto ciò che è
stato tradotto, fin dall’ottanta, quando ancora non era così famoso, è Murakami
Haruki, anche se il suo 1Q84, a mio
parere, non ha reso giustizia alle aspettative che aveva suscitato. Quello che
mi intriga in Murakami è il suo fare incontrare le ombre, dando corpo a
percezioni appena sussurrate. E, da vero narratore, non dà spiegazioni agli
eventi inspiegabili di cui intesse le sue storie. Li lascia sospesi tra le
pagine. È un raccontare in cui cerca sempre un risarcimento alla perdita; di
persone, di cose, di sentimenti chiusi dentro corpi impenetrabili e abbandonati
a un flusso della vita che va verso un unico punto di non ritorno. Storie di
identità, di solitudini, di certezze che vengono meno. Ma anche storie in cui
si racconta sempre altro, e questo altro è uno degli enigmi che interrogano il
lettore.
-
Scrittore/scrittrice vivente che non riesci ad apprezzare e perché.
- Sono molti gli scrittori contemporanei e viventi
con i quali non riesco a stringere il famoso patto come lettrice. Provo a leggerli
ma, spesso, non arrivo alla fine. Un nome in particolare, Palahniuk; trovo la
sua scrittura troppo costruita e fredda, da tavolo anatomico.
- Parlaci
del tuo ultimo lavoro e fornisci un motivo per cui dovremmo leggerlo.
Il mio ultimo lavoro singolo e del 2011 è un
romanzo: Nuda Vita. È la storia di Delfina, una ragazza in coma a seguito di un
incidente, chiusa in quello stato che i medici definiscono minimal
responsive. Attorno a lei si affannano i personaggi che fanno parte della sua
esistenza: la madre, donna ingombrante e perfezionista; un padre lontano, mite
e un po’ egoista; un fidanzato inconsistente che nasconde una colpa terribile;
la fisioterapista; le amiche; l’uomo che amava di nascosto. Lo schema narrativo
è semplice e ruota intorno a tre elementi: i monologhi dei personaggi che si
alternano intorno al letto di Delfina, spazi di sincerità e di autoconfessione
nella trama di ipocrisia e di doppiezza che segna le loro vite; i dialoghi tra
loro, spesso segnati dal tentativo di svelare gli inganni reciproci; il flusso
di coscienza di Delfina, vera e propria “donna abitata”, in bilico tra
l’istinto di vivere e il bisogno di allontanare la sofferenza e abbracciare
definitivamente il sonno (un bisogno talmente forte che i visitatori sono
“assedianti” e l’assillo prevalente di Delfina è che i suoi pensieri non
abbiano “echi né risonanze”).
Proprio in questi giorni è uscita un’antologia di
racconti noir, ispirati a un grande del polar francese, André Héléna,
a trent’anni dalla sua scomparsa, edito da Aìsara, in cui sono in compagnia di
importanti e bravi noiristi come Alessandro Greco, Giovanni Zucca o Morozzi,
per citarne alcuni tra i dodici. Ah, sono l’unica donna!
Il titolo è Le Prince Noir. Omaggio ad André
Héléna.
Quest’ultimo si può trovare in qualsiasi libreria.
Nuda Vita, piccolo editore e piccolo distributore, è più facile acquistarlo su
IBS o ultimabooks
giovedì 6 giugno 2013
CUORE CAVO di VIOLA DI GRADO recensione di Daniela Frascati
Titolo: Cuore cavo
Autore: Viola Di Grado
Editore: E/O
Anno: 2013
Editore: E/O
Anno: 2013
Cuore Cavo è il secondo romanzo di Viola Di
Grado, dopo Settanta
acrilico trenta lana, la storia di un conflitto letale tra madre e figlia
dentro un'afasica incomunicabilità, che ha fatto guadagnare all'autrice il
Premio Campiello Opera prima nel 2011 e l'ha promossa a rivelazione degli
ultimi anni. E, a ragione.
La Di Grado ha una scrittura potente, poetica,
spiazzante e in questo nuovo e inquietante romanzo ne dispiega tutta la forza.
La storia sorprende fin dall'inizio. Poche righe
scarne e, all'apparenza, definitive che sono invece l'avvio di una
straordinaria narrazione.
"Nel 2011 è finito il mondo: mi sono uccisa.
Il 23
luglio, alle 15,29, la mia morte è partita da Catania. Epicentro il mio corpo
secco disteso, i miei trecento grammi di cuore umano, i seni piccoli, gli occhi
gonfi, l'encefalo tramortito, il polso destro poggiato sul bordo della vasca,
l'altro immerso in un triste mojito di bagno schiuma alla menta e sangue".
Da queste righe parte l'invenzione narrativa.
È infatti la suicida, una ragazza di 25 anni, a
raccontare il suo aldilà. Ciò che dentro la morte perdura della vita e il
disfacimento orrifico e ributtante del suo cadavere che nella morte è utero
accogliente di milioni di vite brulicanti, di insetti, spore, funghi.
"La putrefazione è stato il periodo più triste. È quando sono arrivati gli insetti. La prima squadra, poi la seconda, la terza(...). Mi strappavano i tessuti come carta da parati, finché è emerso il muro tremendo delle ossa.(...) Sono arrivati i dermestes lardarius, poi i necrophorus fumathor. Vandali viscidi con zampe lunghe e scure che non si fermano mai."
In una continuità in cui abbatte la barriera tra vita e morte, noioso tabù occidentale, come l'autrice dichiara in un'intervista, osserva il suo dissolversi corporale raccontandone meticolosamente tutti gli stadi e rivive o, forse, vive per la prima volta, ciò che ha lasciato oltre il nirvana raggiunto, ritornando, liberata dal peso della materia di quando il suo corpo era carne e anima, alle abitudini, agli affetti, ai luoghi.
Cuore cavo è la storia di un suicidio e di ciò
che segue. Una folgorante invenzione della vita dopo la morte: la nostalgia,
l'amore, la frequentazione "fantasmatica" delle persone care, la
solitudine e l'incomunicabilità, in un aldilà cupo e ribollente, senza pelle e
senza sensi, dominato da una natura crudele, che sfalda i corpi, ma anche da
una vita ostinata che a questa morte si sottrae.
E, mentre Dorotea da viva si nascondeva, viveva la
sua infelicità all'ombra di quella della madre, e se ne sentiva responsabile e
impotente, mentre medicava la sua paura del mondo da cui si sentiva sradicata e
allontanata e lo depurava in un'apatia indotta da farmaci, in quell'oltre
indicibile, per il quale Viola Di Grado ha trovato le parole, può ricordare
senza tormento ciò che è stata e non sarà più.
Da quel nulla immateriale che è diventata, osserva
com'è da morta, accanto ai vivi che non vuole abbandonare, come se il
dissolvimento nella morte le avesse restituito la capacità di provare
compassione e condivisione e allo stesso tempo di ricomporre ciò era stata e
ciò che è.
"Equivalgo a tutto il resto, come accade a chi non è più nulla. Sono una libera associazione, una figura vuota, un album da colorare. Ma anche se sono uno sguardo volatile fuori dal mio scheletro, posso tornare dentro la mia gabbia toracica quando voglio. Posso stringere il metacarpo e le falangi come quando tenersi per mano era consolante. Posso fare tutte queste cose perché io e il mio scheletro ci amiamo: siamo in una specie di relazione aperta, e io sono gelosa di tutti gli insetti, del vento e della pioggia, dei batteri anaerobi."
Eppure in ogni momento della sua vita e in ogni pagina di questo diario di morta, mentre osserva il disfacimento di esistenze, la sua prima di altre mentre bambina, poi adolescente, infine giovane donna, vive incrostata nelle assenze, nei vuoti, la morte è sempre lì, presenza quotidiana e ricorrente.
Anche il suo suicidio è il gesto
ricorrente di una genealogia di donne infelici, che coltivano la depressione
come un rifugio, e se ne vanno per scelta come ha fatto lei.
L'acqua è il luogo delle morti. Per affogamento,
svenamento, dissanguamento. Ma anche acqua come riconsegna al luogo della
nascita, come a chiudere il ciclo di un eterno ritorno.
"Sono nata di parto naturale in una vasca da bagno e sono morta di morte innaturale nello stesso posto."
Una grande prova letteraria che si appropria dello splatter in modo ossessivo e ne fa codice non solo linguistico ma restituito al suo significato originario: far vedere le cose nel loro disgregarsi, dissolversi, mostrare l'orrore della corruzione che vive dentro.
mercoledì 22 maggio 2013
IL LIBRO NERO di Horan PamuK recensione di Daniela Frascati
Titolo: Il
libro nero
Autore: Ohran Pamuk
Editore: Einaudi
Anno: 2007 (Prima Edizione Originale 1990)
Traduzione: Semsa Gezgin
Autore: Ohran Pamuk
Editore: Einaudi
Anno: 2007 (Prima Edizione Originale 1990)
Traduzione: Semsa Gezgin
Il libro nero di Pamuk è un libro difficile, labirintico, notturno, sotterraneo
e metaletterario, come sente il bisogno di chiarire al lettore lo stesso
Pamuk, in una postfazione di dieci anni dopo. Questo romanzo è
infatti "il romanzo" ma anche "la rappresentazione della
sua creazione letteraria", tanta è stata la compromissione
dell'autore nello scriverlo.
Una
stesura durata cinque anni, di cui l'ultimo periodo chiuso in un appartamento
vuoto, dentro un palazzo di 17 piani, nel quartiere di Erenköy,
completamente abbandonato alla scrittura, con la paura di perdersi nel
labirinto che stava costruendo e la rivelazione che quel labirinto fosse lui
stesso e la propria storia.
«Mi sentivo completamente solo come Galip
(forse per riversare nel libro questo senso di perdizione). Romanzi così, cui
avete dedicato la vostra esistenza, vi portano passo dopo passo dove desiderano
loro, proprio come la nostra vita legata a questo libro.»
Forse
proprio per questo, nella sua oscurità, è uno dei libri più affascinanti che si
possano leggere, paragonabile all'opera di Borges che, con le sue
enciclopediche e incessanti citazioni, pare volerci ricordare che solo nel
manifestarsi del paradosso può, forse, affiorare la verità. Come lui, Pamuk,
nella costruzione delle innumerevoli narrazioni che attraversano la storia de
Il libro nero, sembra dirci che la verità, così come la conosciamo, non è
sensata, non procede secondo una logica comprensibile, e ogni cosa è illusione,
menzogna, artificio scenico, nella vita come nella letteratura.
Come
ne L'uccello
che girava le viti del mondo di Murakmi Haruki, anche ne Il libro nero
la storia muove dalla scomparsa della moglie del protagonista.
Lì, assieme alla moglie scomparirà anche il gatto di Toru Okada; qui la scomparsa dell'amatissima moglie Rüya svelerà anche la scomparsa di Celâl, il fratellastro di molti anni più vecchio di lei.
Lì, assieme alla moglie scomparirà anche il gatto di Toru Okada; qui la scomparsa dell'amatissima moglie Rüya svelerà anche la scomparsa di Celâl, il fratellastro di molti anni più vecchio di lei.
Celâl
è un giornalista molto apprezzato che sulla rubrica di un giornale, il «Milliyet», da trentacinque anni scrive,
senza saltare un numero, un'interrotta opera enciclopedica di
ricostruzione di Istanbul, attraverso gli oggetti della modernità e gli echi
del suo passato.
Così
Il libro nero diventa un immenso contenitore di storie, una dentro l'altra, una
dietro l'altra, la cui connessione è la spirale di smarrimento e perdita che la
sparizione di Rüya sembra portare alla luce ma, allo stesso tempo, è un
giallo dove gli intrecci si aggrovigliano su se stessi e gli indizi, anziché
avvicinare la soluzione, la allontanano.
Rüya,
che Galip conosce fin dall'infanzia, se ne va lasciandogli una lettera
d'addio di diciannove parole. Una sorta di enigma scritto con una biro verde.
Una biro come quella che Galip aveva perso in mare quand'era bambino durante
una gita in barca con Rüya, e che Celâl aveva inserito in una magistrale
puntata della sua rubrica sul «Milliyet»,
dove immaginava tutti gli oggetti che sarebbero venuti alla luce «il giorno che il Bosforo andrà in secca».
Da
questa lettera inizia la ricerca di Rüya e, nello stesso tempo, la
ricerca della ragione della sua scomparsa.
Il libro nero è un romanzo che sovrappone, accumula, vive di doppi, di
fantasmi, d'identità rubate; dove gli oggetti, le cose della vita quotidiana,
come in un sogno hanno una misura fangosa che tira dentro un vortice dove ci si
perde. Così Istanbul, le sue strade, i suoi palazzi, i personaggi, sembrano
vivere in realtà che si specchiano e si sdoppiano e, imprevedibilmente,
s'incontrano tra le pagine del romanzo, assumendo di volta in volta un
altro significato, un altro ordine temporale, un'altra dimensione.
«Ogni cosa si rispecchia in un'altra, e tutte
le cose e le persone sono contemporaneamente se stesse e la loro replica».
C'è
un abisso tra l'Istanbul dell'omonimo romanzo/biografia di Pamuk e questa
Istanbul catacombale, fatta di sotterranei reali e di sotterranei dell'anima,
di storie stratificate che si chiamano tra loro. Non c'è luogo senza segreti, o
architettura che non nasconda un'ombra e ne proietti un'altra.
Dal
capitolo diciottesimo: Il pozzo buio
«Molti anni dopo, un pomeriggio, sono andato
a rivedere quel palazzo. Avevo percorso quella strada sempre affollata
un'infinità di volte, comminando su quegli stessi marciapiedi dove durante
l'intervallo di mezzogiorno, si spintonano con la cartella in mano i liceali
tutti stazzonati (...) Era una sera d'inverno. Si era fatto buio presto e il
fumo dei comignoli era sceso come una nebbia sullo stradone. Le luci accese
erano soltanto due, lucine fioche, malinconiche, di due uffici dove si stava
lavorando fino a tardi. Per il resto la facciata era nel buio più totale. Tende
scure tirate su appartamenti bui, finestre vuote, inquietanti come gli occhi di
un cieco. In confronto a ciò che era stata un tempo ebbi l'impressione di una
cosa fredda, insignificante, poco piacevole. Non era nemmeno possibile
immaginare che un tempo ci avesse vissuto n'estesa famiglia, gli uni sopra gli
altri, sempre insieme, pronti ad accapigliarsi,in un'enorme baraonda.
Mi piacque lo stato di abbandono e rovina in cui versava l'edificio
(...) Che cosa ne sarà stato del mistero nascosto nella forra che poi è
diventato il pozzo di aerazione? E che cosa ne sarà stato del pozzo stesso, con
tutto quello che c'era dentro? Mi riferivo al pozzo vicino al palazzo, la
cavità senza fondo che di notte provocava brividi di paura e non soltanto a me
ma anche a tutti i bambini e gli adulti che abitavano ai diversi piani
dell'edificio, Pullulava di pipistrelli, serpenti velenosi, ratti e scorpioni
come il pozzo di una favola.»
Il
libro Nero è una preziosa e complessa impalcatura letteraria, ma anche una
sorta di discesa negli inferi dell'anima.
Conferendo a Orhan Pamuk il Premio Nobel per la letteratura 2006, i membri dell'Accademia svedese hanno scritto che "Il libro nero è un'odissea attraverso un'Istanbul notturna piena di geni e presenze impalpabili, una città dove le storie inventate sembrano più credibili di quelle vere, e la verità è un'ombra sul muro."
Conferendo a Orhan Pamuk il Premio Nobel per la letteratura 2006, i membri dell'Accademia svedese hanno scritto che "Il libro nero è un'odissea attraverso un'Istanbul notturna piena di geni e presenze impalpabili, una città dove le storie inventate sembrano più credibili di quelle vere, e la verità è un'ombra sul muro."
Pamuk
non rivela o, forse, non può rivelare ciò che sta dentro e oltre la storia.
Anzi ogni rivelazione è a sua volta occultamento e sprofondamento in una
dimensione onirica eppure iperreale.
«Sì, c'era una volta un principe che aveva
scoperto che il problema fondamentale della vita è essere o non essere se
stessi, ma quando Galip cominciò a immaginare i colori della storia, si sentì
prima trasformare in un altro, poi in uno che si addormenta.»
E
come scrive alla fine della sua postfazione: «Perché non c'è nulla di sorprendente come la vita. Tranne lo scrivere.
Lo scrivere. Sì, certo tranne lo scrivere, l'unica consolazione che abbiamo.»
mercoledì 27 febbraio 2013
ILIR E GLI EFFETTI SECONDARI DEL VENTO - recensione di Raffaella Galluzzi
ILIR E GLI EFFETTI SECONDARI DEL VENTO
di Daniela Frascati
Illustrazioni Mary Villani
Genere: Per
ragazzi
Trama:
Sul cucuzzolo di una montagna talmente alta da tagliare le nuvole, viveva il popolo delle Rogaie e il piccolo Ilir. Dopo secoli che quella minuscola gente fuggiva dal mondo smisurato dei giganti Orm, si era alla fine ritirata in cima a quell'alta montagna. In quel posto così alto e così lontano la vita scorreva tranquillamente ma iniziava e finiva lì: tutto il resto del mondo infatti era stato escluso e, sul cucuzzolo della montagna, il popolo di Ilir non aveva idea di cosa succedesse al di fuori del villaggio di Az. Meno male che c'era il vento Bri che raccontava al piccolo Ilir cosa succedeva nel resto del mondo.
Commento:
Ilir è un bambino piccolo piccolo, di appena venti centimetri di altezza, anche se fra i suoi coetanei è il più alto; abita in un mondo ai confini della realtà, sul cucuzzolo di una montagna rocciosa assieme agli abitanti del popolo nomade delle Rogaie, che vive raccogliendo erbe e ghiande. Lì si sono rifugiati tutti per sfuggire al gigantesco popolo dei giganti Orm, che sta radendo al suolo i boschi con le sue terribili creature di ferro, lasciando intorno solo deserto e desolazione.
Lassù il vento la fa da padrone, soprattutto Bri, il gelato vento del nord che per mesi e mesi sibila attraverso le fessure e le imposte delle abitazioni. Ilir scopre di avere lo stesso dono di una sua antenata, quello di capire le parole del vento. E così, durante quelle interminabili notti gelide, nessuno si nasconde più impaurito sotto i piumoni e le lenzuola, ma tutti si seggono attorno ad Ilir ad ascoltare i racconti del vento. Attraverso quei racconti conoscono un mondo che altrimenti sarebbe rimasto loro totalmente estraneo. E pare che i piccoli abitanti delle Rogaie, se ne stiano ancora lì, saldamente attaccati alla loro roccia, appagati di guardare dall'alto e da lontano il mondo, almeno finché Ilir sarà capace di farli sognare sulle ali del vento o fino a quando la curiosità di sapere e vedere con i propri occhi saprà vincere ogni timore.
Ilir e i suoi amici imparano ad interpretare il mondo e la natura ed a non temere il vento gelido e capriccioso dell'inverno, anzi, attraverso di esso, conoscono un mondo del quale non sospettavano nemmeno l'esistenza. Così anche il lettore di questo breve racconto, imparerà a non aver paura, a non temere l'ignoto e la diversità, ad aprirsi alla novità. Perché, come dice Bri, se non fossi qui a raccontarli con le parole di Ilir, quei luoghi che io attraverso non li vedreste mai. Non sapreste che il mondo e la gente è diversa eppure eguale in ogni parte della terra e, anche se in ogni luogo ha usanze e storie diverse, gli uomini piccoli o grandi, sono simili ovunque. Tutti devono mangiare, lavorare assieme per costruire città, e dividere tra loro la terra e le cose che producono se vogliono stare in pace. E, dunque, io vi porto le memorie e le storie di altri popoli e di altre genti perché sappiate che il mondo è di tutti anche di chi come voi vive in questa piccola città di Az, in un posto sperduto e solitario. Perché il mondo tanto grande faccia parte della vostra vita come fosse un interminabile sogno ad occhi aperti.
Un bellissimo messaggio d'amore e solidarietà che trova una concreta trasposizione anche nelle poetiche illustrazioni di May Villani.
Trama:
Sul cucuzzolo di una montagna talmente alta da tagliare le nuvole, viveva il popolo delle Rogaie e il piccolo Ilir. Dopo secoli che quella minuscola gente fuggiva dal mondo smisurato dei giganti Orm, si era alla fine ritirata in cima a quell'alta montagna. In quel posto così alto e così lontano la vita scorreva tranquillamente ma iniziava e finiva lì: tutto il resto del mondo infatti era stato escluso e, sul cucuzzolo della montagna, il popolo di Ilir non aveva idea di cosa succedesse al di fuori del villaggio di Az. Meno male che c'era il vento Bri che raccontava al piccolo Ilir cosa succedeva nel resto del mondo.
Commento:
Ilir è un bambino piccolo piccolo, di appena venti centimetri di altezza, anche se fra i suoi coetanei è il più alto; abita in un mondo ai confini della realtà, sul cucuzzolo di una montagna rocciosa assieme agli abitanti del popolo nomade delle Rogaie, che vive raccogliendo erbe e ghiande. Lì si sono rifugiati tutti per sfuggire al gigantesco popolo dei giganti Orm, che sta radendo al suolo i boschi con le sue terribili creature di ferro, lasciando intorno solo deserto e desolazione.
Lassù il vento la fa da padrone, soprattutto Bri, il gelato vento del nord che per mesi e mesi sibila attraverso le fessure e le imposte delle abitazioni. Ilir scopre di avere lo stesso dono di una sua antenata, quello di capire le parole del vento. E così, durante quelle interminabili notti gelide, nessuno si nasconde più impaurito sotto i piumoni e le lenzuola, ma tutti si seggono attorno ad Ilir ad ascoltare i racconti del vento. Attraverso quei racconti conoscono un mondo che altrimenti sarebbe rimasto loro totalmente estraneo. E pare che i piccoli abitanti delle Rogaie, se ne stiano ancora lì, saldamente attaccati alla loro roccia, appagati di guardare dall'alto e da lontano il mondo, almeno finché Ilir sarà capace di farli sognare sulle ali del vento o fino a quando la curiosità di sapere e vedere con i propri occhi saprà vincere ogni timore.
Ilir e i suoi amici imparano ad interpretare il mondo e la natura ed a non temere il vento gelido e capriccioso dell'inverno, anzi, attraverso di esso, conoscono un mondo del quale non sospettavano nemmeno l'esistenza. Così anche il lettore di questo breve racconto, imparerà a non aver paura, a non temere l'ignoto e la diversità, ad aprirsi alla novità. Perché, come dice Bri, se non fossi qui a raccontarli con le parole di Ilir, quei luoghi che io attraverso non li vedreste mai. Non sapreste che il mondo e la gente è diversa eppure eguale in ogni parte della terra e, anche se in ogni luogo ha usanze e storie diverse, gli uomini piccoli o grandi, sono simili ovunque. Tutti devono mangiare, lavorare assieme per costruire città, e dividere tra loro la terra e le cose che producono se vogliono stare in pace. E, dunque, io vi porto le memorie e le storie di altri popoli e di altre genti perché sappiate che il mondo è di tutti anche di chi come voi vive in questa piccola città di Az, in un posto sperduto e solitario. Perché il mondo tanto grande faccia parte della vostra vita come fosse un interminabile sogno ad occhi aperti.
Un bellissimo messaggio d'amore e solidarietà che trova una concreta trasposizione anche nelle poetiche illustrazioni di May Villani.
Età di lettura: 0-99 anni.
(Raffaella Galluzzi)
Della stessa autrice:
Nuda vita
Amori anomali
(Raffaella Galluzzi)
Della stessa autrice:
Nuda vita
Amori anomali
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