amorino alato

amorino alato
C’era in lei, tuttavia, un angolo segreto dove non arrivava il riverbero di nessuna luce. Da lì veniva quella voglia di tenere a bada il corpo e la materia che gli dava forma; lì fluttuavano profumi intensi e dolcissimi, e fruscinìo di sete leggere e il seno bianchissimo di Rosa la Parda. Lì, coltivava il giardino di un’altra vita che ogni tanto, a occhi chiusi o nel sonno, andava a visitare.(Amore Anomalo - daniela frascati)

domenica 13 febbraio 2011

da PIAZZA BELLA PIAZZA di AA.VV.- Nixon Boia di Daniela Frascati

NIXON BOIA                                                                                              

Roma 27 febbraio 1969
di daniela frascati 
 I parte


«Mi sa che oggi succede un casino. È meglio che il pupo lo fai sta’ a casa» aveva detto mio padre mentre si girava la sciarpa intorno al collo.
Il pupo, come si dice a Roma, ero io; avevo quasi dodici anni e facevo la seconda media alla Giosuè Borsi. Quattro traverse più avanti.
«Che stai a di’?» fece mia madre dalla cucina chiudendo il rubinetto dell’acqua.
«Ho detto che è meglio che Marco oggi non va a scuola! Tira una brutta aria.»
«Ma come, vuoi che lo lascio solo tutto il pomeriggio?»
«Allora resta a casa pure tu!»
«Oh, che ti sei impazzito?! Con questi chiari di luna ci manca solo che perdo la giornata.»
«Mandalo da tua sorella allora» fece mio padre tornando sui suoi passi. «Guarda Laure’, è una cosa seria. Ieri sera in sezione dicevano che oggi ci sarà una vera guerra, tutti gli studenti dell’Università si sono mobilitati per la manifestazione, e credi che ‘sti fascisti del governo gliela faranno passare liscia?»
«E che fa l’università Marco? Con la fantasia che c’ha, ringrazia il cielo se finisce la terza media! Comunque, non se ne parla nemmeno, a scuola ci va, come tutti i giorni! Sarebbe bello che perché Nixon fa la guerra in Vietnam non andasse più a scuola! Così cresce ancora più ignorante de noi.»
«Fa’ come vuoi tu, ma mi raccomando, se vedi che da queste parti le cose si mettono male, vai almeno a prenderlo all’uscita.»
Io, con l’orecchio teso dietro la porta del bagno, mentre il rubinetto scorreva a fiotti per far credere alla mamma che mi stavo lavando i denti proprio alla maniera giusta, avevo ascoltato tutta la conversazione, e avevo pure sperato che mio padre tenesse la parte. Invece, come succedeva sempre, mia madre l’aveva già convinto. Eppure quando mi portava in sezione con lui e c’erano quelle riunioni che m’appallavano tanto, mio padre incantava tutti. E come mi piaceva starlo a sentire! Smettevo pure di dare la caccia ai topi che lì, a due passi dal mercato, c’avevano fatto il centro residenziale, per ascoltarlo in quelle riunioni dove ognuno s’alzava in piedi e ragionava di tutto, ma proprio di tutto, che non mi capacitavo come facessero, perché parecchi di loro non avevano finito neanche le elementari e lavoravano sodo, allo Scalo o ai Mercati generali, o nei cantieri come manovali, e arrivavano alla sera tanto stravolti che manco si riconoscevano.
Lo capivo al volo quando doveva parlare mio padre; cominciava ad agitarsi sulla sedia e dava il tormento a Fernando, il barbiere, parlottandogli nelle orecchie a bassa voce così, quando proprio non poteva più trattenersi, alzava la mano; il Segretario gli faceva un segno d’assenso e, appena l’oratore di turno s’era azzittito, diceva: «E ora tocca al compagno Francesco!»
Il compagno Francesco si metteva in piedi, schiariva la voce e attaccava i suoi ragionamenti. Iniziava in modo quieto, quasi parlasse tra sé, ma lentamente il tono saliva e allora le parole gli uscivano forti e impetuose. Un’ansia di capire, di comunicare, così che quella voce diventava un crescendo di toni e di pensieri. Era come gli venisse a galla l’anima! Così mio padre parlava. Con il cuore generoso e la mente fervida, e i suoi ragionamenti entravano dritti nella pelle di quanti lo stavano a sentire. Incantati, appunto.
Quando tornavamo a casa camminavamo svelti, perché era sempre tardi. Mi teneva la mano nella sua e me la stringeva con intensità, come volesse sentire e sapere che io avevo capito.
Con la mamma non aveva neanche bisogno di raccontare. Lei sembrava sempre essere al corrente di tutto. Ogni volta mi chiedevo come facesse. Se fossi stato meno preso da Carosello, mi sarei reso conto che era all’ora di cena che nascevano gli interventi tanto appassionati di mio padre. Puntigliosamente la mamma stendeva una specie di rendiconto di tutti i guai della gente del quartiere; di come fossero incazzati per i salari che non bastavano mai, per gli aumenti delle bollette, per i doppi turni a scuola.
«Ricordati di dirlo la prossima volta che si è formato il comitato per  l’autoriduzione delle bollette: questo partito, se vuole essere ancora comunista sul serio, si deve occupare  meno dell’Unione Sovietica e più di sostenere queste iniziative! Tu non puoi neanche immaginare quanta gente fa l’autoriduzione e non solo per necessità, ma per un bisogno più giusto, che è quello di tutti.»

Insomma a scuola quel giorno ci sono dovuto andare lo stesso. Il fatto è che mia madre era una donna testarda e intransigente e, soprattutto, mio padre si fidava di lei. Anzi di più. Si affidava a lei. Era il 27 febbraio e io non avevo studiato i verbi deponenti. Che poi non deponevano affatto, né a loro favore né tantomeno al mio. Così, alla terza ora mi sono beccato questa interrogazione di latino. E mentre la prof Cardelli alternava le sue domande tra me e Branzini io, che tanto non sapevo cosa rispondere, mi sono preso tutto il tempo necessario per studiare le facce dei miei compagni di classe fino a cogliere, di ogni fisionomia, quell’espressione speciale e unica che ne mette a nudo la vera indole. Sono convinto che la mia passione e la mia professione di vignettista satirico nacquero durante le scene mute delle mie interrogazioni, soprattutto di latino, da quelle osservazioni minuziose fino all’iperbole.
«Impreparato! E non ti metto quattro perché ti voglio ancora dare fiducia!» esclamava la Cardelli mentre mi rispediva al banco.
«Meno male» dicevo tra me, perché un po’ mi sarebbe dispiaciuto tornare a casa e dire che avevo preso quattro; così almeno, di fronte a un’affermazione tanto generica, mi sentivo autorizzato a non farne parola. Impreparato per me era senz’altro sinonimo di colto di sorpresa, ma probabilmente per la Cardelli quel termine assumeva tutt’altro significato. Nel dubbio, decisi appunto che era meglio non farne parola. «Vuol dire che la prossima volta non mi farò cogliere di sorpresa.»
Saranno state più o meno le cinque e fu mentre tiravo giù il predellino per sedermi e Claudia D’Amore mi lanciava uno di quegli sguardi che mi avevano impresso nella testa le uniche parole latine che mi ricorderò per sempre, habent fata sua nomina, che sentimmo il primo botto.
Io e Fulvio, il mio compagno di banco, alto due volte me perché era già due volte che ripeteva la seconda media e altre due volte aveva fatto la prima, ci guardammo con aria interrogativa. Fulvio, che gli bastava il fischio di un merlo per correre alla finestra, quando non direttamente in strada, si era già affacciato per capire cosa fosse stato, mentre la Cardelli sbatteva manate sulla cattedra e urlava per farlo tornare al banco. L’effetto ottenuto fu esattamente l’opposto. Ora tutti e 32 eravamo pigiati addosso alle vetrate dell’aula, arrampicati sui banchi, uno sopra l’altro e, quando i botti si ripeterono di nuovo, ed erano colpi secchi ma pieni, più dilatati di un colpo di rivoltella, alcuni di noi erano già nel corridoio e avevano infilato la porta del gabinetto per guardare giù senza impedimenti. Avevo subito capito che si trattava della guerra di cui aveva parlato mio padre la mattina. Così feci un figurone con i miei compagni raccontando che erano quei fascisti del governo che sparavano agli studenti dell’Università. Eravamo tutti eccitati e più aumentava la confusione in strada, più cresceva l’agitazione nelle classi e nei corridoi. Da fuori arrivavano urla, slogan indistinti, rumori metallici di bidoni dell’immondizia  rovesciati, e lo scalpiccio scomposto di persone che correvano da tutte le parti. Poi, c’erano quei colpi che si ripetevano ogni volta più ravvicinati. Ora arrivava anche un odore acre di fumo che ci prendeva alla gola e ci faceva bruciare gli occhi e urla imperiose dalla strada che ordinavano di serrare tutto.
«Chiudete, chiudete! Presto venite via di lì» urlavano anche le bidelle e i professori mentre ci trascinavano letteralmente lontano dalle finestre dove, come soggiogati, assistevamo a quanto stava accadendo nelle vie sottostanti.
Finalmente, almeno dal loro punto di vista, riuscirono a riportarci in classe mentre il tumulto in strada si faceva sempre più rabbioso. Sembrava proprio fosse in atto una battaglia: il rimbombo duro degli scarponi sul selciato, il fragore di cose metalliche, l’infrangersi di vetri o di bottiglie rotte. E i botti. Accidenti quanti botti! A momenti, sovrastava su tutto, nettissimo, scandito come una sola voce, lo slogan Nixon boia! «Che dicono?» mi chiese Fulvio. «Nixon… boia.» «Ma chi è ‘sto boia» domandò ancora Fulvio. «Uno che fa la guerra e ammazza i vietnamiti» risposi, «ma non la vedi la televisione?» «Sì la vedo, ma mica posso da’ retta a tutte le frescacce che dice!» «Beh, questa non è una frescaccia, li sta proprio  ammazzando tutti!» «Ah sì!» fece convinto Fulvio. E allora cominciò a dire piano, seguendo la scansione che veniva dalla strada: Nixon boia! Nixon boia! e batteva il tempo sul banco. Cominciò quasi tra sé e sé, poi prese coraggio e allora fu un crescendo; io ripetevo Nixon boia con lui, poi lo disse Carloni, attaccò Andrea dalla fila della finestra e anche Claudia D’Amore mi guardò con gli occhi che le luccicavano e disse forte, ma forte: Nixon boia!! Che era come mi avesse detto: «Marco mi piaci.» Così cominciarono anche le femmine, e ora il nostro Nixon boia riusciva a coprire perfino il casino che veniva da fuori. La prof Cardelli era terrorizzata. Continuava a urlare: «Zitti, zitti, per favore! Mi farete cacciare dal preside!» e intanto si asciugava le lacrime con un fazzoletto. «Accidenti, questi lacrimogeni!» farfugliava, ma si vedeva benissimo che stava per venirle una crisi di nervi.
Poi iniziò un andirivieni caotico. Si sentiva bussare alla porta ed entrava Ersilia, la bidella del piano.
«Professoressa, la madre di Salina lo aspetta in presidenza.»
Salina, tutto contento, arraffava le cose sparse sul banco gettandole alla rinfusa nella cartella e infilava la porta, salutando appena la prof, tutto eccitato all’idea di ritrovarsi in strada.
Dopo un po’ Ersilia si affacciava: «Cocuzza! In presidenza. C’è tua nonna.»
Alla fine non bussava neanche più; diceva un nome e via, seguita dal fortunato o fortunata. La classe si stava svuotando paurosamente, e io e Fulvio ci guardavamo sconsolati. Poi ci capimmo al volo.
Appena la porta si dischiuse e ci fu l’infornata, perché Ersilia, ormai stufa di quell’avanti e indietro continuo aspettava che almeno arrivassero tre o quattro parenti a reclamare i ragazzi, ci infilammo quatti quatti nel gruppo, mantenendo una certa distanza, perché Ersilia non era imbranata come la Cardelli. Appena arrivati davanti alle scale le imboccammo di volata. Giù all’entrata il portone era accostato e c’era una gran confusione di gente e tutti avevano le lacrime agli occhi. Ci facemmo largo a spintoni per uscire.
«A regazzi’, ma che sete matti!? ‘Ndo volete anna’ co’ ‘sta buriana!» ci bloccò sulla porta la signora Teresa che aveva il banco di frutta in piazza. Anche i venditori del mercatino avevano cercato un riparo lì dentro.
«Io devo anna’ a casa!» farfugliò Fulvio.
«Ma che, me stai a cojona’… ma ssi manco cell’hai ‘na casa! E te? Aoh, io a te te conosco, sei er figlio de Lauretta e de Francesco, quello della sezione che fa il tranviere.»
«Sì, sì, sono io,» risposi intimidito, «papà l’aveva detto che oggi era meglio se non ci venivo a scuola, era preoccupato per le cose che aveva sentito, ma io ci sono voluto venire lo stesso. Ora ci vado a casa, che tanto abito qui vicino.»
«Allora tiè, pijate ‘sti limoni.» aprì il grembiule che teneva arrotolato e tirò fuori due limoni di Sorrento grossi così. «So’ de la migliore qualità, ma prima de falli spiaccica’ sotto i piedi di quei celerini… piuttosto li butto via. Tiè, pija pure te,» e ne mise altri due in mano a Fulvio.
Io e Fulvio ci guardavamo come due scemi. Non ci sembrava proprio il momento di mettersi a fare la reclame alla propria mercanzia, ma la gente è tanto strana, ci dicemmo con gli occhi.
«Ah, vabbè! Ndo’ volete anna’ voi due? I limoni ve li dovete sfragne’ ‘n faccia.»
Prese un coltellino dalla tasca, spaccò preciso alla metà un limone e cominciò a strofinarmelo sulle guance, sulla bocca e sul naso, poi mi sistemò la sciarpa e me la portò fino agli occhi: «Così se fa! Hai capito regazzi’! Serve pe’ nun soffocasse, che ‘sti disgraziati ce stanno a appesta’! Pure te,» e prese per le spalle Fulvio «ce l’hai un fazzoletto? Beh, legatelo sul muso come dovessi fa’ ‘na rapina (come si dice a Roma, è passato l’angelo e ha detto amen. Quanti fazzoletti sul muso si sarà messo in vita sua Fulvio, manco se lo ricorderà più!) e te strofini, pure sul fazzoletto, ecco, così. E l’altra metà ve la tenete a portata di mano e all’occorrenza vi date ‘na bella ripassata. Mo’ potete pure prova’ a usci’, ma me raccomanno, sete du’ creature, non v’annate a confonde colli studenti, che ce stanno a pija’ un sacco  di botte!»
Dopo averci fornito tutte le istruzioni del caso, aprì e mise la testa fuori dal portone. Era già quasi notte e il fumo acre e spesso dei lacrimogeni aumentava l’oscurità.
«Teresa, Teresa!» urlò a squarciagola una donna mezzo attossicata dalla finestra di fronte appena vide far capolino la mole inconfondibile della fruttarola: «Che sta a succede’?»
«Ah Mimma, ma che ce stai a ffa’ a casa de tu’ socera? ‘Nciavevi litigato?»
«Poi te dico! Ma che è ‘sto casino? Che è scoppiata la rivoluzione!?»
«Volesse er cielo!» le rispose la sora Teresa: «No! Je lo fanno crede’ a ‘sti regazzi!»
Proprio nel meglio della conversazione si sentì un boato provenire da dietro l’angolo e un fumo nero si alzò da una Cinquecento che qualcuno aveva piazzato in mezzo alla strada.
«Ma che stanno a bombarda’» urlò la suocera della signora Mimma affacciata a un’altra finestra. «Che, è ‘n’antra vorta il 19 luglio!? Pare che so’ arrivati l’ammericani, come nel Quarantatré!»
«Uno, uno n’è arrivato!» rispose il marmista della bottega di fronte mentre tirava giù la serranda.
«E uno da solo già fa tutto ‘sto casino?»
Intanto da una traversa laterale sbucava un gruppo di studenti; gridavano La Nato/sarà/il nostro Vietnam, ma più che altro scappavano. Dietro, un plotone di celerini con certe facce incazzate che neanche nei film. Correvano, ma i ragazzi di più, anche se qualcuno finiva incastrato nelle strettoie tra le automobili parcheggiate e allora… dio, che botte che si pigliava! E mica da uno solo. In dieci gli si accanivano contro; sembrava che i colleghi di quello che l’aveva afferrato, per la rabbia di non essere stati capaci di fare altrettanto, gli menavano ancora più forte e con più cattiveria. Quello, poveraccio, cercava di ripararsi come meglio poteva, ma non c’era né un meglio né un peggio. Erano botte da tutte le parti e in tutti i modi, coi manganelli, con le giberne, con gli scarponi. Io pensavo che lo avrebbero ammazzato. Che li avrebbero ammazzati, perché lì, quasi davanti a me ne presero tre o quattro, pure una ragazza, e lei cercavano di colpirla proprio in faccia perché l’intenzione era quella di sfregiarle i lineamenti. Poi, quando anche i poliziotti si resero conto che li stavano massacrando per davvero, si fermarono e trascinarono i ragazzi, che sanguinavano da tutte le parti, fino al cellulare. Per fortuna qualcuno, dopo le prime manganellate, riusciva a darsi alla fuga senza che potessero buttarlo a terra o schiacciarlo addosso al muro o al cofano di una macchina. Terrorizzato, sentivo i vetri dei parabrezza rompersi in schegge sotto i colpi dei manganelli e pensavo che gli avrebbero spappolato il cervello, invece lo vedevo sfuggire alla presa e dileguarsi dentro un portone che si apriva come per incanto, o in una bottega che richiudeva immediatamente i battenti. Perché la gente di San Lorenzo è fatta così; anche se non aveva un buon rapporto con gli studenti, per via che la notte facevano caciara in strada ed erano un mondo a parte rispetto al quartiere, non poteva sopportare che la polizia spadroneggiasse per le strade in assetto di guerra. A San Lorenzo non era successo manco quando c’era il Duce!
Intanto la signora Teresa mi tratteneva per un braccio e tentava a forza di riportarmi dentro. Io invece, malgrado avessi paura, volevo fare come Fulvio che si era subito imbrancato con gli studenti e ora con la mazzafionda, lui era proprio un campione, tirava certe schicchere di sampietrini ai poliziotti, senza mancarne uno, correndo raso raso alla fila delle macchine parcheggiate.
«Marco! Marco!» non so come feci a sentire la voce di mia madre in quella bolgia.
Arrivava trafelata, col fiato mozzo per la corsa e per i lacrimogeni.
«Marco mio, che  stai  facendo qua in mezzo!? Vieni, vieni, andiamo a ripararci dentro.»
«Meno male che è arrivata lei» sbuffò la signora Teresa «io nun ce la facevo più a reggerli ‘sti due! Guardi un po’ l’altro pischello che sta a ffa’,» e indicava Fulvio che sembrava fosse al tiro a segno.
«Dio, ma che in mezzo alla gente si fa ‘sta guerra!» disse sconfortata mia madre.
«So’ disgraziati! Annassero a lavorà al cantiere invece de prenne’ a botte li cristiani; che poi guardi un po’, so’ tutti ragazzini ‘sti studenti. Guardi, guardi quello, che je stanno a ffa’» e indicò un secco coi capelli alla Beatles «è ancora un fijo de mamma, che c’avrà, l’anni de mi’ nipote?!»
«Ma è suo nipote!» esclamò mia madre.
«Sto delinquente! A voja a butta’ li sordi, mi’ fija» e si precipitò come una furia addosso al povero ragazzo. Gli ammollò due pizze in faccia che anche il celerino, allibito, rimase con il manganello a mezz’aria mentre ancora lo tratteneva per il braccio.
Poi la sora Teresa, per completare l’opera, si girò di scatto verso il militare e gli assestò una ginocchiata proprio in mezzo alle palle.
«Tiè, così te ricordi che vor di’ esse’ omo!»
Continua...

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