amorino alato

amorino alato
C’era in lei, tuttavia, un angolo segreto dove non arrivava il riverbero di nessuna luce. Da lì veniva quella voglia di tenere a bada il corpo e la materia che gli dava forma; lì fluttuavano profumi intensi e dolcissimi, e fruscinìo di sete leggere e il seno bianchissimo di Rosa la Parda. Lì, coltivava il giardino di un’altra vita che ogni tanto, a occhi chiusi o nel sonno, andava a visitare.(Amore Anomalo - daniela frascati)

giovedì 13 dicembre 2012

Le Prince Noir. Omaggio ad André Héléna


InLibreria

Le Prince Noir. Omaggio ad André Héléna” a cura di Alessandro Greco

articolo di Giuliana Pagliari

Le Price Noir (Aísara, 2012) è composto da dodici omaggi ad André Héléna, uno scrittore ancora relativamente poco noto in Italia, e rivalutato solo negli ultimi anni in patria, dove assieme a Malet e Simenon è stato una delle voci più autorevoli del noir francese. L’intraprendente editore sardo Aísara ha da poco portato André Héléna all’attenzione dei lettori italiani, inaugurando, nel 2008, una collana di racconti e romanzi noir in suo onore.
Le Prince Noir rientra in questa collana di omaggi al maestro francese, proponendo dodici racconti di giovani autori italiani ispirati ai lavori di Héléna. Dodici storie legate dallo stesso filo conduttore di omicidi, ricatti, spionaggio e prostituzione, che mantengono però le proprie particolarità e diversità per quanto riguarda l’ambientazione, lo sviluppo e lo stile della narrazione, in cui si alternano altrettanti scrittori. Seppure tutti i racconti siano avvincenti e piene di suspense, è opportuno soffermarsi in modo particolare su alcuni di essi, che si sono rivelati delle scoperte estremamente piacevoli.
Di forte impatto “I clienti del Central Hotel” di Daniela Frascati, che si apre sulla figura di un anziano signore che riceve un invito per una mostra fotografica. La foto sulla locandina, una sala di torture e un uomo di spalle in penombra, fa iniziare un viaggio nel passato, riportando alla mente del protagonista alcuni ricordi sepolti in un angolo della memoria. Un periodo della sua giovinezza fatto di violenza gratuita, di sadismo, ricatti e torture. Questo salto indietro nel tempo si trasforma ben presto in un viaggio fisico per trovare l’organizzatore della mostra, e capire chi sta cercando di mandargli un messaggio e perché. In “Massacro all’Anisette” di Alessandro Greco, troviamo invece una comunissima riunione di famiglia, con i quattro figli che tornano a casa dopo aver appreso che il padre è affetto da una grave malattia. E, come capita in ogni famiglia, ci troviamo di fronte a dissapori nascosti, litigi malcelati, gelosie, tradimenti e perdite premature. Greco riesce a costruire un avvincente thriller in un contesto quotidiano e rassicurante come la famiglia.
Molto coinvolgente “Il Gusto del sangue” di Giovanni Zucca, che tiene col fiato sospeso fino all’ultima riga. In uno scenario di ricatti, riciclo di denaro e titoli al portatore, ricettatori e assassini si muovono in una commovente storia di affaristi, tradimenti, vendette e colpi di scena. È forse il racconto che meglio di tutti rende l'atmosfera “nera” che si respira in tutta la raccolta: «Mio padre diceva che il mondo è un gran barile di merda, coperto da uno strato di miele. Gli esseri umani si lanciano sul miele, e dopo tre leccate sono nella merda».
Il buon Dio se ne frega” di Gianluca Morozzi tratta invece una simpatica situazione dei nostri giorni, in cui al protagonista viene commissionata la stesura di una sceneggiatura basata su un racconto di André Héléna. Si apre così un racconto surreale in cui si susseguono diverse sceneggiature alternative volte ad accontentare sia il produttore sia il pubblico televisivo.
Vita dura per le canaglie” di Claudio Bagnasco, siamo catapultati in un mondo dominato da due fazioni contrapposte che si contendono il territorio. Un contesto abitato da un assassino di professione privo di rimorsi e sentimenti, anche e soprattutto nei rapporti con le donne, di cui vengono tratteggiate con toni scuri la morbosità, la frustrazione, lo squallore e la dannazione.
Uno dei particolari che colpisce maggiormente in questa lettura è il ruolo che le donne svolgono in ogni racconto. I personaggi femminili sono tratteggiati con grande rilievo, e ricoprono un ruolo fondamentale nell’architettura noir, siano esse prostitute, fidanzate, mogli, figlie o mamme. L’apporto della donna in questo ciclo di racconti non è mai statico o di ausilio allo sviluppo del personaggio maschile: la donna si rivela essere sempre in primo piano, protagonista, a ricoprire ruoli forti, cruciali e vivi – sia da assassina che da vittima. Un sorprendente fil rouge in un'architettura noir.

(AA.VV., Le prince noir. Omaggio ad André Héléna, a cura di Alessandro Greco, Aísara, 2012, pp. 288, euro 16) 

venerdì 23 novembre 2012

IL TEMPO TAGLIATO - di Silvia Longo Scritto da Daniela Frascati



Titolo: Il tempo tagliato
Autore: Silvia Longo
Anno: 2012

Il tempo tagliato, romanzo d’esordio di Silvia Longo, ha lo spessore del romanzo di una scrittrice compiuta.

Gli esordi, qualche volta, condensano una vita di scrittura trascorsa ad affinarsi, a indagarsi, e così è per Silvia Longo e la sua storia che, nell’apparente semplicità, ha la forza dirompente di un temporale.

Una storia quotidiana di una donna affogata in un ruolo, quello di madre e, soprattutto, di moglie, che la fagocita.
“Cento volte la stessa sequenza. Avanti e indietro dalla camera al bagno, dal bagno alla cucina, da casa al supermarket, dalla bocca all’intestino, dai pensieri alle labbra e alle mani, senza mai rompere il cerchio.”

Una normalità dolorosa che spesso sconfina nella rinuncia di sé.
Così è per Viola. Una vita metodica, sommessa; fatta di piccole cose, lasciate a fare da sedimento alla solitudine che diventa musica dell’anima e che per troppo tempo ha avuto paura di ascoltare.

La morte improvvisa di Federico, il marito, la costringe a fare i conti con quel silenzio in cui ha sepolto la parte più vitale di sé.
È smarrita, abbandonata nelle stanze vuote, nelle giornate prima riempite dalla presenza di Federico, direttore d’orchestra, artista dall’ego ingombrante, a cui sente di dovere tutto. Il suo essere musicista, i suoi successi, la sua esistenza alla ribalta, sono stati la misura della vita esteriore di Viola, dello spazio sociale che occupava accanto a lui fin da quando, figlia di gente modesta, l’aveva sposato accedendo all’agiatezza di un’esistenza borghese e ricca, in una piccola città di provincia.

Un tempo lungo vent’anni che ha finito per renderla muta e insignificante, prima di tutto a se stessa, nella completa adesione alla vita del marito, nell’abitudine e nell’affievolimento dei sentimenti.
Ma Viola è una donna speciale. Il silenzio per lei è tempo interiore, coscienza e costruzione di consapevolezza, e quel lutto diventerà il discrimine tra il prima e il dopo, tagliando il tempo della sua vita in due parti.
La metafora del tempo scandisce ogni passaggio di questa storia.
Il tempo dentro la musica, il tempo meteorologico, il tempo dello spasimo interiore, quando il pieno delle cose quotidiane, l’accudimento e la cura dell’altro, straripano fino ad annullare.

E questo taglio, questa spezzatura, mentre sembra annullarla definitivamente, incardina invece il percorso di un tempo ritrovato.
Nel silenzio del dolore per quella perdita, Viola comincia dalla superficie. Per primo, ritrova il suo corpo. Un corpo disperato, ammutolito, che malgrado lei e il vuoto in cui vorrebbe scomparire, non sa darsi per vinto.

Fin dalla prima pagina, in quel casto autoerotismo che chi legge intuisce tra il sudore e le lenzuola scomposte, in quel risveglio nel solstizio d’estate, c’è già l’accenno della vita che riprende il sopravvento.
L’incontro con Marco alla manifestazione musicale in memoria del marito, lo stesso giorno, compirà il resto. Assieme a questo sconosciuto lascerà il concerto per fuggire altrove, in qualsiasi posto, purché lontano dalle convenzioni e dall’autocontrollo dove si era barricata fino ad allora.
È ancora la metafora del tempo musicale ad accompagnare Viola nella sua fuga.
La fuga è la forma polifonica più rigorosa, complessa e impegnativa in cui gli strumenti danno luogo a una melodia nella quale non conta l’effetto armonico bensì la misura con cui le diverse voci sviluppano il tema musicale.
Il tema in questo caso è Viola, la memoria della sua vita raccontata per frammenti e squarci di coscienza.
Dentro questa fuga che risuona di conflitti e di tensioni, con se stessa prima di tutto, Viola scioglierà, finalmente, i nodi della trappola dove si era lasciata imprigionare.

Il tempo tagliato è un romanzo di emozioni che chiede al lettore di compromettersi con la protagonista, di accompagnarla, sperduta e sofferente, dimessa nella persona, per poter scomparire meglio agli occhi degli altri, fino a ritrovarsi.
Silvia Longo compie il sortilegio di intrecciare una storia tanto delicata, piena di sentimenti sfumati, di emozioni indagate, con il controcanto di una scrittura forte, ritmata, essenziale, priva di orpelli, dove ogni parola non può che essere quella e solo quella. Né prima né dopo. È ciò che la Longo fa dire a Viola mentre indossa il filo di perle per il concerto in commemorazione del marito.

Penso che le perle siano come parole. Serve cura nel coltivarle, e nello scegliere come allinearle su un filo che sia di seta o di discorso.

Daniela Frascati

sabato 3 novembre 2012

NUDA VITA romanzo -Daniela Frascati

Una negativissima recensione al mio romanzo Nuda Vita, dal blog SognandoLeggendo, a cui, con mia sorpresa e piacere, sono seguite repliche di lettori che, invece, hanno apprezzato la mia storia.

http://sognandoleggendo.net/blog/?p=11671



giovedì 11 ottobre 2012

IL CAPPELLINO COLOR GLICINE - omaggio a Jane Austen di Daniela Frascati



Ringrazio Elena Sokie Antolini per avermi voluto sul suo blog Il DIARIO DELLA FENICE in questo omaggio alla Austen, con il racconto:

IL CAPPELLINO COLOR GLICINE





Cliccare sotto per leggere il racconto 



http://diariodellafenice.blogspot.it/2012/10/speciale-jane-austen-daniela-frascati.html



se non vi compare subito la pagina cliccate su HOME PAGE 

martedì 17 aprile 2012

I CLIENTI DEL CENTRAL HOTEL- A. Héléna Scoperta Di Una Riscoperta

Scoperta Di Una Riscoperta

Scritto da Daniela Frascati.


«Qui non ci sono che vittime», disse in un’intervista del 1959 Héléna, sul suo romanzo I Clienti Del Central Hotel.
Una storia incupita dentro avvenimenti che toccano il cuore del XX secolo – la Seconda Guerra mondiale e la lotta di liberazione dei partigiani francesi – che ne sfiorano l’epica, ma la affrancano dalla dimensione politica e dal giudizio morale, per ricondurla alla condizione di vite disperate. Quelle di una generazione buttata nel cestino della storia come vuoto a rendere, per la quale la morte è casualità, e l’assassinio pura sopravvivenza. Una strada senza via d’uscita, un vicolo cieco, dove finiranno per precipitare tutti i personaggi di un noir che va oltre il cliché, e  sconfina con la letteratura nel senso più compiuto.
Scritto a distanza di anni dal suo primo romanzo, Il Gusto Del Sangue, da tutti ritenuto il migliore, ne riprende l’ambientazione e la dimensione temporale: gli ultimi giorni dell’occupazione tedesca, tra la resistenza e i fuochi finali di un esercito invasore in fuga, in una cittadina della provincia francese, Perpignan, sul bordo dei Pirenei. Luogo che diventa il palcoscenico di un dramma collettivo, nel quale s’incrociano i destini di uomini e donne consumati dalla solitudine, dalla perdita, dalla ferocia del voler vivere a tutti i costi. Una disperazione esistenziale che brucia nelle parti basse del corpo e riconduce l’uomo ai bisogni più essenziali, come l’autore fa dire ad Azema, lo sbirro frustrato che cercava altrove, nell’ambiguità di essere un altro, il surrogato a una vita meschina, tartassata dalla solitudine: «Davanti alla morte gli uomini ridiventano quello che non avevano mai smesso di essere, insomma. Mangiare, riprodursi e dormire.»

Il fulcro è il Central Hotel: passaggio, incrocio di esistenze precarie e transitorie, che si sceglie come rifugio o capita per caso sulla strada del sesso, di un amore infedele, aspettando un tempo migliore per superare la frontiera e uscire dall’altra parte, dove la guerra non arriva. Ma che diventa anche l’ultima stazione per chi avrà, proprio lì, il suo appuntamento con la sorte, a un soffio dalla salvezza o dal riscatto.
L’abiezione e la miseria accomunano tutti in questa storia dove ognuno è colpevole di qualcosa; di aver tradito se stesso, ciò che era stato prima che la guerra deflagrasse e riconducesse la natura umana alla ferocia dei suoi istinti primari, di aver tradito un compagno, un’ideale, la propria terra, il proprio essere. Ma come si può distinguere il crimine quando si vive in esso, quando la guerra è il crimine più alto e stupido che l’umanità possa compiere?
«La guerra era, a quanto pareva, molto meno santa, molto meno giustificabile e molto meno  incoerente e inutile di quanto le era parso fino a quel momento. Era sorpresa anche di vedere che provava la stessa pietà per quel partigiano, che era suo nemico, e per quel tedesco, di cui suo marito portava l’uniforma. Davanti alla sofferenza erano tutti uomini e lei, donna, li vedeva nudi, che è la prima e la più evidente delle realtà…»

La banalità del male è affare quotidiano. È  l’ombra che ognuno si porta dietro, inclemente e ineluttabile, come la morte. È qualcosa che rende tutti i personaggi del Central Hotel vittime di se stessi, prima ancora che del conflitto o della resistenza. Prima ancora dell’odio e delle vendette, del bisogno insopprimibile di vivere al di sopra – e oltre – qualsiasi valore, qualunque sentimento o impulso che non sia bruciare la propria vita, o quello che ne rimane, in un disperato, quasi animalesco coito.
Non c’è salvezza per i Clienti del Central Hotel; non ce n’è per nessuno. Tutti toccano con mano il male di esistere, e viene in mente una delle più belle poesie di Montale:

Spesso il male di vivere ho incontrato:
Era il rivo strozzato che gorgoglia,
Era l’incartocciarsi della foglia
Riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
Che schiude la divina Indifferenza:
Era la statua nella sonnolenza
Del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

Così, sulla struggente cupezza dei personaggi incombono il vitalismo spietato e indifferente di una natura sovraccarica di pathos, e la dolcezza delle estati del sud, che esaltano il desiderio della carne e dilagano impietose sulla campagna battuta dalle imboscate dei partigiani. Una natura accesa di luce affilata, tagliente come una lama, come solo i cieli meridionali sanno trattenere. Una natura che spia la vita degli uomini, mentre la morte li tallona aspettando una svista, un passo falso, per colpirli alle spalle.
Eppure, per una specie di vendetta della memoria, «i luoghi non conservano niente», osserverà un cliente del Central Hotel, tornando a Perpignan quindici anni dopo.
Héléna fa di quest’opera un congegno in cui la scrittura segue gli umori contorti, i legami disperati, l’aggrumarsi del sangue in modo ora ruvido, ora poetico e pietoso, miscelando gli ingredienti del più autentico romanzo popolare.

 

La vita di un libro e di un autore, a volte, sono come un fiume carsico.
Si ingrottano all’improvviso, per la disattenzione dei contemporanei o un’altra forma di incuria, e ricompaiono in luoghi e tempi diversi con nuova forza vitale. È quello che è accaduto a Héléna, prolifico paria della letteratura, con oltre duecento romanzi firmati con un numero sorprendente di eteronimi. La sua produzione ha coperto una vasta gamma di generi, anche diversissimi tra loro, ed è complessa come la sua vita, inseguita da editori avidi di trarre il massimo profitto dalla sua capacità di accarezzare con tanta compiacenza i gusti del pubblico, e da numerosi creditori. Fu uno dei pochi rappresentanti del noir europeo tradotto negli USA negli anni Sessanta, fino alla sua scomparsa. Riscoperto dalla casa editrice Aìsara, che ha scelto di proporre in Italia alcuni tra i suoi migliori lavori, sarà a breve in libreria con Viva La Muerte!

giovedì 15 marzo 2012

RECENSIONE NUDA VITA di Simone Oggionni

Pubblico, la bellissima recensione del mio romanzo Nuda vita, fatta da Simone Oggionni, che sarà sul numero di aprile della rivista della sinistra radicale, Essere Comunisti.
La pubblico senza pudore - parla benissimo del mio libro - , e senza pudori di rimozioni e omissioni ideologiche, né imbarazzi perbenistici da fase di revisionismo avanzato (persino il mio editore si è trattenuto dal compromettersi con questi vecchi arnesi). A dire il vero Essere Comunisti è una rivista che ragiona ancora del mondo, esercita un pensiero critico, produce analisi teoriche su molto di quanto passa sulle nostre teste e sui nostri corpi maciullando coscienze e vite, e presta attenzione alla cultura e all’arte. Con un punto di vista. Insomma “il pane e le rose”, come rivendicavano, esattamente un secolo fa le operaie del Massachusetts in sciopero, trasformando in slogan una frase di Rosa Luxemburg
E, dopo aver letto le considerazioni di Pietro Citati e Raffaele La Capria sulla letteratura e l’editoria, lo faccio senza vergogna, accampando la stessa dignità al mio romanzo - che non conosce classifiche, né critici famosi, e i cui lettori si conteranno sulle dita delle mani e dei piedi – di coloro che forse più capaci di me, senz’altro più fortunati e più ammanicati, hanno l’onore di essere riconosciuti “scrittori”. Il mio romanzo non è una storia da Essere Comunisti, tutt’altro. Non ho bisogno di ammantarmi né di operaismo, né di letture sociologiche del mondo e della vita, né di narrazioni post neorealiste. Ho già dato. In prima persona.


Recensione NUDA VITA

Daniela Frascati è una grande scrittrice. Il suo ultimo romanzo, Nuda vita (Editrice Absolutely Free, 2011, 195 pp.), condensa tutte le sue qualità e le esalta. Innanzitutto, la pulizia e l’eleganza dello stile. A tratti pura poesia, pura lirica, per esprimere le emozioni più alte, a tratti prosa volgare, a raccogliere gli umori e gli istinti. Ed è già questo un secondo pregio straordinario: sapere trasmettere, nell’equilibrio di registri differenti, il senso del dramma, un possibile significato della vita, in tutte le sue sfumature.
Ma muoviamo dalla trama. Delfina è una ragazza in coma, dopo un incidente stradale forse non del tutto fortuito. I suoi affetti, le sue relazioni, quelle scelte, quelle rinnegate e imposte, quelle familiari, si susseguono e talvolta si incontrano al capezzale di Delfina, nella stanza della clinica privata nella quale una madre patetica e oppressiva la fa accudire.
Lo schema narrativo è semplice e ruota intorno a tre elementi: i monologhi dei personaggi che si alternano intorno al letto di Delfina, spazi di sincerità e di autoconfessione nella trama di ipocrisia e di doppiezza che segna le loro vite; i dialoghi tra loro, spesso segnati dal tentativo di svelare gli inganni reciproci; il flusso di coscienza di Delfina, vera e propria “donna abitata” (le connessioni non volute con Gioconda Belli sono davvero molte), in bilico tra l’istinto di vivere e il bisogno di allontanare la sofferenza e abbracciare definitivamente il sonno (un bisogno talmente forte che i visitatori sono “assedianti” e l’assillo prevalente di Delfina è che i suoi pensieri non abbiano “echi né risonanze”).
La disposizione di questi elementi nel tessuto narrativo è compiutamente teatrale, al punto che pare che l’autrice l’abbia concepito allo scopo di metterlo in scena.
A quali meditazioni induce questa pièce ipotetica e potenziale? Moltissime, e ognuna sollecita la dimensione intima dell’autocoscienza, limitando di molto la dicibilità di spazi di riflessione collettiva.
Ne azzardo tre, le più immediate.
La prima ha a che fare con il confine tra presenza e assenza, tra luce e tenebre. Daniela Frascati parla della prima in termini di “dissoluzione” e delle seconde in termini di “compattezza”: a parlare è la prospettiva rovesciata del coma, ma l’impressione è che questa discrasia rispetto alla realtà convenzionale ci parli del nostro mondo. Nella luce, nella vita quotidiana, c’è il dolore della dispersione, la sofferenza di ciò che è indeterminato, aperto alle mille sollecitazioni del reale.
La seconda riflessione si connette a questa. Cosa rompe la logica capovolta che rende perfetto “l’essere nel non essere” e preferibile il vuoto del silenzio alla pienezza disordinata del presente? Soltanto l’amore. Soltanto l’amore vero stimola Delfina, la sollecita, la incuriosisce, la attira calamitandola in un vortice di tensioni ancora più contrastanti e ancora più intense. Soltanto attraverso l’amore la protagonista riesce a trasformare la linea di dissolvenza tra sicurezza e paura (che abita l’abisso dell’inconsistenza) in un nuovo confine che separa – e al contempo interseca – piacere e angoscia.
E oltre all’amore, infine, che cosa rimane? Delfina asserragliata nel suo coma, noi asserragliati nella lucidità delle nostre miserie e delle nostre falsità quotidiane: due condizioni speculari e complementari, due nuances dello stesso colore. E allora ciò che rimane è il senso di impotenza, l’impossibilità di trovare la piena libertà e forse anche la vera dignità del vivere e del morire.
Del resto, anche la conclusione – struggente, parossistica, paradossale, salvifica, redimente – non risolve l’incognita, non pacifica un dramma che è irrisolvibile. È la Nuda vita.

Simone Oggionni




domenica 29 gennaio 2012

Come Nascono Gli Angeli di Daniela Frascati

Come Nascono Gli Angeli

Scritto da Daniela Frascati.

La domenica è il giorno della pausa, del riposo. Quello dedito a sé.
Nel nostro mondo finto e sofisticato si può riacquistare un valore, senza paura di cadere nell’ovvio: un respiro più lungo, un gesto vuoto di ansie, della fretta che consegna all’incomunicabilità. È affrontare le cose con un passo diverso, concedere un’altra possibilità alla speranza di ricaricare le batterie. 
Anche attraverso la lettura.
Anche attraverso un seme, una bozza. Una matrice, quella di un libro, intitolato Nuda Vita.
   
 
[…] Ifea scopriva nelle effimere trasparenze di immagini incompiute un mondo denso di presenze, di cui non riusciva a cogliere che un gesto o la compressione di un movimento. Tutto il resto era il misterioso embrione di un mondo che le si negava, perché Gusmano la allontanava dalla camera oscura proprio quando la carta, ormai impressionata dal riflesso della pellicola, lasciava qua e là affiorare un volto, un oggetto, il riquadro di una finestra.
Nell'attesa che il fotografo finisse il suo lavoro, la ragazza usciva per strada, e nella calura polverosa e bianca del paese cominciava a camminare, percorrendo l'unica via degna di nome.
Procedeva lentamente, rintanandosi nei punti d'ombra degli edifici, fino ad arrivare in quella che doveva essere stata la piazza principale, ai tempi in cui il luogo poteva aver avuto un qualche splendore. Da lì si dirigeva al centro dell'ampio spazio, accecato dal riverbero del sole.
Uno schizzo d'acqua giallastra zampillava, seppur con qualche intermittenza, andando a riempire una grande vasca circolare rivestita, all'interno e all'esterno, di conchiglie e valve di molluschi.
Con circospezione si guardava intorno, e una volta accertato che nessuno potesse vederla si sfilava gli zoccoli, la veste di lino bianco, lasciandoli sul basamento della fontana; con agilità scavalcava il bordo, e si immergeva in quel liquido dorato, addensato da un velo di melma, abbandonandosi al refrigerio che le suscitava il contatto con l’acqua.

Ifea si stendeva sul fondo macerato dai licheni e dai girini, chiudeva gli occhi e aspettava che il sole declinasse fino al limite dell'orizzonte.
In quell'ora la piazza cominciava a vivere.
Qua e là chioschi improvvisati offrivano ai passanti focacce di mais e bibite al limone. Donne accovacciate su stuoie colorate esponevano una povera mercanzia; gelatai ambulanti con il loro triciclo a pedali si trascinavano dietro un codazzo di bambini semivestiti e scalzi, che guardavano con avidità i coetanei più fortunati.
Dal fondo della strada arrivava un canto struggente accompagnato da alcune chitarre. Ifea allora riemergeva da quel sonno umido che la placava, indossava il camicione di lino e cominciava a curiosare nell'assembramento chiassoso che nel frattempo si era radunato.
La sera già si scioglieva, illanguidendo i colori della terra.
A quell'ora Gusmano era indaffarato attorno a un vecchio furgone. Preparava le macchine, gli obbiettivi, i lampi al magnesio che sarebbero serviti per il suo lavoro notturno nei luoghi degli amori disperati.
Quella sera aveva già sistemato gli attrezzi del mestiere e aspettava solo lei, poggiato contro il muro del patio.
La casa era vasta, solitaria, e la notte la circondava con un bagno di luna che ne sbiancava le ombre.
«Ti stavo aspettando» disse lui, appena la vide farsi avanti sulla soglia. «Ero in ansia per te. C'erano strani individui che si aggiravano qua intorno, poco fa.»
Lei trasalì, e un ombra le oscurò la fronte. Aveva ancora i capelli arricciati dalla permanenza nella vasca e sentiva, come sempre le succedeva dopo i bagni, un'afflizione inusitata in mezzo al petto. Lo guardò, avvolgendolo nella malinconia trasognata dei suoi occhi, e disse sottovoce: «Non ho visto nessuno, era tutto normale come al solito. Ad ogni modo vado a dormire. Buona notte.»
Gusmano la trattenne un attimo mentre gli passava vicino, poi la lasciò fuggire via, arrendevole.

Ifea si rannicchiò sotto le lenzuola fino a sfiorare l'alito del nulla.
Chiuse gli occhi e cominciò ad arrampicarsi su un'interminabile ragnatela grigia, dove al centro la sua testa era la corolla di un fiore malato d'asma che apriva e chiudeva i petali fuori tempo, ostacolando il respiro e facendola boccheggiare.
Sentiva le lenzuola ruvide raschiarle la pelle.
Non aveva paura, perché quell'incubo si presentava spesso, e sapeva che occorre del tempo per liberarsene e riprendere il sopravvento sui sensi contaminati dal sonno.
Ma quella notte soffrì a lungo. Un paesaggio terroso si stendeva a dismisura sotto di lei. Le pareva di compiere a ritroso un percorso nel tempo fino a uno squarcio da cui si sentiva risucchiata. Salvata all'ultimo istante da una forza invisibile volteggiava a mezz'aria, sopra una radura verde notturno, dove sbarbagliava un'acqua palustre e vischiosa.
Nella radura si muovevano sagome incerte, prese in un singolare girotondo, una farandola compressa dentro una fuga di note prive di armonia, così che le figure ne erano trascinate a una velocità inaudita e ogni tanto, per uno strappo che quel vortice provocava nella gravità, qualcuna veniva sbalzata lontano, oltre l'orizzonte. 
Nei trasudi di realtà che vìola lo spazio senz’ordine dove si muovono i sogni, Ifea ricordava di avere già visto quell'immagine nel libro che la signorina Esilde le aveva mostrato nell'emporio un pomeriggio.
Da quel punto la dimensione del sogno prende di nuovo il sopravvento e Ifea, simile a un vapore lieve, comincia a dissolversi nell'aura dell'incubo, e di lei non resta che una ruga di nebbia, un dagherrotipo appeso alla parete di una stanza vuota.

Di solito si svegliava trattenendo in gola un grido, che le prime volte la terrorizzava più dell'incubo,  perché l'urlo si spandeva nella grande casa vuota, dilagando crudele come il ringhio di una belva in agguato.
Ifea sapeva che dovevano passare ancora molte ore prima di udire i passi rassicuranti di Gusmano che rientrava dal suo girovagare, perciò si rannicchiava sotto le lenzuola pensando ogni emozione, ogni circostanza capace di scacciare l’inquietudine.
Ma sempre, al risveglio, sentiva la materia solida del suo corpo come in un territorio di frontiera. E quando, nella penombra, trovava il coraggio di guardarsi le mani, le sentiva così leggere e vibranti che più d'una volta aveva preferito dimenticare la percezione.
Quella notte andò peggio del solito. Già il sogno si era riempito di paesaggi inusitati; al risveglio, poi, un’arsura raschiante le stringeva la gola e un dolore acuto le tormentava la schiena, proprio fra le scapole, come se qualcosa, una lama, un organo, spingesse per uscire.
Era un dolore netto e violento che impediva di riprendere sonno, e le dava l’impressione di fluttuare nella notte.
«Credo che morirò. Morirò senza più rivedere Gusmano e dirgli il bene che gli voglio» pensava, mentre cercava di toccarsi la linea che si apriva dietro le spalle.
L'oscurità della stanza era compatta e morbida come velluto, ma a tratti frusciava, emettendo un raschio ventoso. Inoltre mai prima di allora aveva patito una fitta più tremenda, né avvertito una chiara prossimità con il vuoto della morte.
Fu assalita dal terrore.

Quella mattina, mentre Argia Bell si affaccendava in cucina spennando polli e impastando focacce, le aveva raccontato di come in punto di morte l'angelo addetto al computo del tempo spezzasse il filo umano dell'esistenza. E in quella frazione di secondo, durante la trasformazione, si poteva osservare il film della vita a ritroso. Una gran luce illuminava gli angoli bui della memoria, per dare alla morte uno straordinario senso di compiutezza. Il racconto l'aveva incuriosita e suggestionata a tal punto che nella sua immersione pomeridiana aveva provato, inutilmente, a suscitare quell'attimo estremo, lasciando che l'acqua viscida della fontana le impregnasse i polmoni, ma aveva sempre dovuto riemergere spinta dall’istinto di sopravvivenza.
Era però lì, nell'oscurità di quella notte, che Ifea sentiva prossima la fine, coi pensieri che iniziavano a svanire, a ritrarsi dal presente.

Provò a muovere le braccia, ma non vi riuscì. Era come fossero imbozzolate in qualcosa di panioso. C’erano e non c’erano: un’impressione molto sgradevole. E poi, quel dolore lancinante. Con uno sforzo enorme provò a sollevarsi dal letto. Fu un’operazione che le costò molta fatica. Portava addosso, assieme, un peso smisurato e una nuova leggerezza.
Riuscì finalmente a mettersi in piedi. Ogni movimento era spazio da riconquistare. 
Abbandonata in quel caliginoso passaggio, non poteva aspettare l’alba e il rientro di Gusmano. Doveva sapere ora, subito, cos’era quel male oscuro che la torceva, e quell’orrore d’inconsistenza.
Si mosse nel buio ovattato della camera, che ai suoi occhi oscillava pericolosamente. Aveva smarrito la percezione dello spazio.
E poi intorno a lei c’era vento. A ogni movimento una folata l’aggrediva in pieno, sferzandola.
Protese le braccia davanti a sé ma il gesto, troppo brusco, la sbilanciò, facendola cadere. Era come se fosse precipitata da una grande altezza. Sentiva di non essere più padrona dei suoi movimenti. Si rannicchiò in posizione fetale e chiuse gli occhi. Al primo tenue brusio li riaprì.
La stanza era invasa da un bagliore accecante.
Veniva dall’alto, da una sorta di bolla che girava e girava. La luce screziava di brillii ogni cosa.
Ifea ne sentì il calore, ritrovò se stessa. In piedi, davanti alla specchiera, vide la sua immagine terribile. Vide l’adolescente scarna e ossuta era diventata una creatura armoniosa, e due immense ali setose, di un biancore iridescente, spuntarle dietro.
Capì che il sogno era un potente presagio.
Di nuovo padrona di sé misurò il vano, improvvisamente angusto, disagevole, con quelle grandi ali che urtavano dovunque. Si diresse verso la finestra. La spalancò di botto.
Stava albeggiando.
Il trambusto spaventò gli animali da cortile. Lei guardò fuori, cercando di capire cosa la straniasse tanto del luogo dov’era cresciuta.
Non notò niente di particolare, tranne le solite sterpaglie ingiallite che si facevano largo fra i ciottoli crepati dal calore, e troppa spazzatura addossata ai muri. Piccolezze che non ricordava.
Si girò lentamente. Poi, piegandosi sulle ginocchia, inspirò fino a sentire il torace dilatarsi per l’aria incamerata, raccolse le braccia al seno, chiuse gli occhi e sparì nelle trasparenze del cielo.

Gusmano chiamava disperatamente.
«Argia, Argia. Presto, vieni. Corri.»
Argia Bell era ancora impaniata nel torpore del sonno, quando sentì quelle grida.
Guardò la sveglia. Erano le quattro e mezza.
«È già tornato», pensò. «Che sarà successo?»
Si buttò addosso uno scialle e corse attraverso i corridoi bui. La voce veniva dalla camera di Ifea. Arrivò con il fiatone. Non poté neanche chiedere cosa fosse accaduto. Lì per lì, si accorse solo di un gran disordine. Non vide nessuno.
Poi fece qualche passo nell’interno, finché sentì dei singhiozzi profondi. Era Gusmano, accucciato sul pavimento, accanto a Ifea. Pareva dormisse, invece il suo corpo era solo un involucro sgonfio.
È così che nascono gli angeli, ma Gusmano e Argia Bell non lo sapranno mai.





mercoledì 11 gennaio 2012

NUDA VITA di Daniela Frascati recensione di LIBRIERECENSIONI




NUDA VITA 
di Daniela Frascati
recensione di LIBRIERECENSIONI
Genere: Narrativa

Trama:
Delfina è una ragazza in coma a seguito di un incidente, chiusa in quello stato che i medici definiscono minimal responsive. Attorno a lei i personaggi che fanno parte della sua esistenza: la madre, donna ingombrante e perfezionista; un padre lontano, mite e un po' egoista; un fidanzato inconsistente che nasconde una colpa terribile; la fisioterapista; le amiche.
Una girandola di amici e parenti che si affolla sul guscio apparentemente vuoto della protagonista e, nel bene e nel male, porta avanti la sua vita. Eppure ognuno di loro è prima di tutto a se stesso che parla, mettendo a nudo le meschinerie e le paure che stanno a fondamento di ogni relazione, in una rappresentazione della normalità che sconfina pericolosamente con il suo opposto, quella sottile e banale follia del quotidiano in cui è immersa la nostra vita.
Fuori Delfina, un succedersi di storie e di colpi di scena. Dentro, l'inquieto vaneggiare di Delfina in attesa del risveglio. Ma se fosse proprio lei a non voler aprire gli occhi?

Commento:
Dopo Amori anomali D. Frascati torna con qualcosa di diverso, non racconti stavolta, ma un romanzo intenso e commovente che ha in comune con il precedente libro un aspetto importante: l'attenzione rivolta verso l'animo umano, il suo sentire, i pensieri - cupi o felici - che lo agitano.
Nuda vita è una storia particolare la cui protagonista, Delfina, pur se in coma riesce benissimo a catalizzare l'attenzione del lettore, grazie ai suoi monologhi toccanti ed agli sprazzi improvvisi di ricordi delle persone che la circondano, perché con la sua "quasi assenza" influenza in qualche modo le loro vite e non gli consente di staccarsi da lei ma anzi, li attrae (anche se per motivi molti diversi) e ne diviene quasi il muto confessore.
Nella sua stanza, figure diverse si alternano senza tregua, voci spesso ipocrite che - solo davanti a quel che ritengono un involucro ormai vuoto - mostrano la loro vera natura. Da una madre possessiva e totalizzante che considera la figlia una bambola di sua proprietà, pianificandone la vita fin nei minimi dettagli, ad un padre assente e debole, pronto a dileguarsi senza curarsi di lei, pur di non confrontarsi con la moglie; da un fidanzato senza carattere e superficiale, che ha solo voglia di ricominciare senza di lei dopo appena un paio di mesi, ad un innamorato insicuro e vigliacco, disposto a sacrificare l'amore verso di lei per il quieto vivere, fino alle false amiche, ipocrite e gelose. Tanta è la doppiezza che circonda la giovane donna, che il suo desiderio di restare "in questa felicità che è assenza ma, a tratti, rimanda echi di un altrove dove non voglio più tornare" diviene comprensibile e quasi condivisibile!
Uniche figure positive risultano la fisioterapista Alma e lo zio Andrea, le sole persone che riescono ad andare oltre le apparenze, a guardare (ed a guardarsi!) con gli occhi del cuore, preoccupati davvero del benessere altrui e non solo del proprio interesse.
Così, mentre i giorni lentamente sfilano, la follia sembra prendere il sopravvento e gli eventi paiono affrettarsi verso il loro assurdo epilogo... ma qualcosa di inatteso accade! In un finale imprevedibile che, nonostante tutto, si rivelerà toccante e delicato, Delfina troverà infine il modo di far valere un ultimo guizzo di volontà. Molto bello.
(M.G.) 



Della stessa autrice:
Amori anomali