amorino alato

amorino alato
C’era in lei, tuttavia, un angolo segreto dove non arrivava il riverbero di nessuna luce. Da lì veniva quella voglia di tenere a bada il corpo e la materia che gli dava forma; lì fluttuavano profumi intensi e dolcissimi, e fruscinìo di sete leggere e il seno bianchissimo di Rosa la Parda. Lì, coltivava il giardino di un’altra vita che ogni tanto, a occhi chiusi o nel sonno, andava a visitare.(Amore Anomalo - daniela frascati)

venerdì 3 dicembre 2010

La Fantastica storia del RE POTE

La Fantastica storia del RE POTE 
 Daniela Frascati                                                                              


C’era una volta, in un regno fantastico, un Re miliardario e potente. Nel suo regno ogni cosa era perfetta e i suoi sudditi appagati. Il Re Pote viveva in un grandioso castello da dove, con centinaia di telecamere sorvegliava che nel suo reame tutto scorresse secondo l’ordine meticoloso che emanava dalla sua volontà. I sudditi del Re Pote svolgevano i loro compiti come tante formichine coscienziose. Per le strade il traffico scorreva ordinato e senza intoppi. La gente non perdeva tempo, non si fermava a parlare, non si distraeva a guardare i fiori o le nuvole nel cielo; ogni cosa e ogni persona era esattamente nel posto dove doveva essere. Agli angoli delle strade, giganteschi altoparlanti ogni mezz’ora diffondevano la voce del Pote  Re che salutava il suo popolo.
- Siate leggeri e spensierati, o fortunati sudditi di questo regno prospero, servite con passione e gioia il vostro re. Nessuna preoccupazione potrà mai turbare la vostra esistenza fino a che  ci sarò io a pensare e decidere per tutti.
In quel regno perfetto una sola cosa incrinava le certezze del Sovrano ed era l’impertinenza della sua bellissima figlia Pinocchia.
Fin  da piccola la curiosità  irriverente di quella bam­bina era   andata  di pari passo con il suo  dispettoso naso.  La ragazzina ficcanasava ovunque; di ogni cosa  chiedeva il  perché  e il percome, scombussolando la vita del regno. Piombava nella bottega del fornaio, dove il poveretto sudava sette ca­mice sfornando  in continuazione  pani croccanti e pro­fumati di ogni forma e  dimensione e, lì su due piedi, chiedeva al malcapitato e ai  suoi aiutanti:
- Perché, voi che siete i panettieri del  regno e im­pastate pagnotte gigantesche e soffici per il Re e  la sua corte,  mangiate solo croste secche e briciole avanzate? -   e ai  minatori che tornavano dalle miniere di sme­raldi  sporchi  di terra e anneriti dal fumo dell'acetilene - Come mai, voi che strappate alla terra tutti quei tesori e quelle ricchezze, siete invece così miseri e cenciosi?
I  malcapitati non sapevano cosa  rispondere. Nessuno aveva  mai rivolto loro  domande tanto difficili e  inopportune. Tutti quei punti interrogativi rotolavano  da  una parte al­l'altra delle loro teste fino a che non perdevano la ragione e le guardie del Pote Re dovevano metterli a riposo  nelle prigioni del castello.
Fu a quel punto che intervenne il gran ciambellano Sottilini.
- Vostra Altezza Reale,  è  necessario per il bene del regno  che Pinocchia  venga allonta­nata per  un  periodo  di rieducazione all'ordine. Vi chiedo  di affidarmela, Ve la ri­porterò quando non ficcasanerà  più. 
A  malincuore  il Sovrano che amava molto quell'impertinente principessina, fu costretto ad  accondiscendere  alla richiesta del Gran Ciambellano.
Così  Pinocchia,  in una notte nera come la pece, fu caricata sopra un carro di carbone e condotta dal perfido Sottilini nella Torre dell'Oblio ai confini del re­gno.
Passavano  i giorni in quella prigione  desolata.
Pi­nocchia trascorreva  il  suo tempo affacciata alla finestra  che  dava  a levante. Da là  vedeva cose meravi­gliose che non aveva  mai neanche  immaginato. Foreste  di querce  imponenti  e  maestose,  pianure  verdi come gli smeraldi e, laggiù lontano,  nelle mattinate  più limpide,  poteva addirittura scorgere  il luccichio del mare. Nelle   interminabili notti solitarie Pinocchia imparò a os­servare le stelle e a riconoscerle una per una seguen­done l'impercettibile spostamento nell'arco del cielo.
Ogni  tanto il Gran Ciambellano Sottilini andava a trovarla sperando di sorprenderla sfinita dalla solitudine ma, a Pinocchia, non appena lo  vedeva,  il  naso cominciava  a  prudere a più non posso e così  un  effluvio  di domande  si riversavano sul malcapitato:
 - Perché il mondo è  così vasto e bello e i nostri sudditi non possono oltrepassare la fore­sta del Limite ? Perché  il tempo, che non ha misura ed è di tutti,  nel  regno di mio padre, viene imprigio­nato  nelle grandi clessidre del tempio e lui il grande So­vrano lo amministra a suo piacimento? -
Il  gran  ciambellano Sottilini scappava  via terro­rizzato.
Quella ragazzina era un pericolo incombente per il prospero  e ordinato regno del Pote Re, bisognava assolu­tamente eliminarla.
Così chiamò al suo cospetto l'elfo più perfido  e  ma­ligno della foresta e l'incaricò di ucciderla.
Pondilla, l'elfo, fu ben  felice di  assumersi  l'incarico;  del resto aveva  proprio bisogno di rinforzare  il suo prestigio un po’  in ribasso  e, detto fatto,  si trasformò in un minuscolo grillo verde che, balzelloni,  balzelloni, arrivò fino alla torre dell'Oblio.
A  Pinocchia non sfuggì quell’animaletto che se  la studiava  ormai da  un bel pezzo, immobile sotto un ciuffo  d'erba che cresceva tra le crepe del da­vanzale.
- Ciao grilletto - lo salutò Pinocchia - come hai fatto  ad arrivare così in alto?
Pondilla  fu sul punto di rivelare  la sua vera natura ed eliminarla immediatamente, ma rimase grillo verde, e  continuò  a osservare la bella principes­sina e il suo naso  bizzarro che s'impennava a ogni cu­riosità.
A  forza di studiarla per cogliere il momento più adatto  in cui  avrebbe potuto sopprimerla, Pondilla ri­mase  irretito  nella grazia  leggera  e geniale con la quale  Pinocchia,  dall'alto  di quella prigione, si spiegava il mondo.
Così rimandava di giorno in giorno il momento in cui avrebbe compiuto  quel gesto irreparabile e intanto, la torre  in  cui divideva la sua nuova esistenza di grillo verde   con  Pinocchia, diventava un luogo  speciale, l'avamposto  di un mondo meraviglioso che niente aveva a che fare con  il mondo degli umani triste e desolato  che Pondilla  aveva conosciuto.
Là nella torre dell'Oblio i giorni rilucevano.
L'intensità  e la passione che Pinocchia metteva nel vivere quella sua vita di solitudine, ravvivata ora dalla presenza  del grillo, era commo­vente.
Una notte che il vecchio Pondilla si struggeva di ma­linconia per  il suo mondo verde e umido, e di amore per quella  fanciulla dall'intelligenza assoluta, per una svista nel controllo  dei suoi poteri, ritornò a essere  Pondilla l'elfo. Quando  Pinocchia si svegliò, trovò  un’orribile  creatura verdastra e bitorzoluta  che  la guardava accovacciata infondo al suo letto.
- Chi sei? Come sei arrivato fino quassù? E il io amico grillo, dov’è? L’hai ucciso? Dimmelo, ti prego? Come farò ora senza di lui?
Pondilla, commosso per la disperazione di Pinocchia non trovò il coraggio di confessare la verità.  Si rannicchiò nell’angolo più buio, coprendosi il volto per non spaventarla. Lei spinta dal dolore per la perdita dell’amico con il quale aveva diviso la sua solitudine, e spaventata per la  visione di quell’essere ripugnante, corse verso la fine­stra e si gettò dall’altissima torre. Pon­dilla, il  vecchio  elfo innamorato, per non  perderla defi­nitivamente, riuscì  a trasformare quella caduta mortale nello scoscio di  una cascata pura come cristallo di rocca.
Allora quell’acqua impetuosa dilagò nella foresta, arrivò fino  alla  vetta altissima  dove era appol­laiato il castello del Pote  Re  e  lo trascinò via, lontano assieme al gran ciambellano  Sottilini  e alla sua corte di gentiluomini perfetti.
Poi del tumulto della cascata non rimase che un limpido zampillo dove,  i  sudditi di un regno ormai senza Re, veni­vano a dissetarsi di  una nuova sete, quella della consa­pevolezza e della libertà.
Ma, guardando con un po’ di attenzione tra la schiuma e il gorgoglio dell'acqua si poteva vedere una candida ninfa  di fonte con un curioso naso che giocava a farsi inseguire da un vecchio cavalluc­cio  verdastro e gibboso.


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