amorino alato

amorino alato
C’era in lei, tuttavia, un angolo segreto dove non arrivava il riverbero di nessuna luce. Da lì veniva quella voglia di tenere a bada il corpo e la materia che gli dava forma; lì fluttuavano profumi intensi e dolcissimi, e fruscinìo di sete leggere e il seno bianchissimo di Rosa la Parda. Lì, coltivava il giardino di un’altra vita che ogni tanto, a occhi chiusi o nel sonno, andava a visitare.(Amore Anomalo - daniela frascati)

sabato 18 giugno 2011

IL CARTOGRAFO

IL CARTOGRAFO
di
Daniela Frascati



(Seconda  parte con aggiunta del finale)                    

 Il povero Tebaldo Percato, probabilmente sfinito dal lungo cammino, era sprofondato in un sonno pesante e flatulento in cui dava sfogo a tutti gli umori che nella veglia,  malgrado la sua na­tura grossolana, riusciva a tenere sotto controllo.
Scorpiade storse il naso, la volgarità e il cedimento del corpo ai propri bisogni lo mettevano a disagio. Gli si avvicinò quasi circospetto.
- Sveglia, ehi, sveglia! Allora, questa  Napadia, dove la dobbiamo mettere?! - lo scuoteva con una certa rilut­tanza.
Tebaldo Percato, destato di soprassalto, si ritrovò con  il cuore  che gli galoppava in gola e, lì per lì,  non riuscì a rendersi conto  dove fosse, poi, guardandosi intorno, alla vista di quel labirinto di libri, si ricordò della Biblioteca di Gravilona  e del perché avesse percorso mezzo mondo per raggiungerla.
Come in un sogno che finalmente si materializzava, vide il volto affilato di Scorpiade e i suoi grandi occhi cerulei che lo fissavano dietro spesse lenti da miope e sentì la voce che con insi­stenza domandava
-  Allora, questa Napadia? 
Quasi non credendo alle sue orecchie si levò in piedi di scatto e afferrata  la borsa da viaggio che aveva poggiato accanto a sé, la scaraventò sul tavolo.
Era così emozionato che non fece neanche caso alle mappe e ai colori  con i quali il cartografo stava lavorando. Vuotò il contenuto  sul tavolino e lo spar­pagliò, cer­cando concitatamente qualcosa che in quel disordine di oggetti sembrava non trovare. Finalmente recuperò una vecchia cartina, unta e consu­mata nelle piegature e, con devozione, la aprì sul ta­volo, spianandola delicatamente con il palmo della mano.
Poi, fece un gesto come a ricomporre il suo porta­mento stazzonato.
- Ecco, vede? - e gli indicò un punto sulla superficie uniforme e senza delimitazioni di alcun genere dove era rappresentata una bassura paludosa. Il tracciato era approssimati­vo, di  un denso colore verde prato - Qui è la no­stra Napadia. -  e con la mano sinistra, indicò sulla carta un pezzettino  anonimo di quel verde eccessivo, men­tre si stringeva la destra a pugno sul cuore e i talloni scattavano nella posizione dell’attenti.
Scorpiade gettò uno sguardo professionale alla carta.
Era un lavoro scadente, a metà tra una mappa di antica fattura e una carta topografica piuttosto rozza e mancante di qualsiasi particolare la potesse differenziare. Tal­mente rare­fatta e semplificata da non rappresentare assolu­tamente niente.
 Scorpiade, pensò che era  meglio così. Quello che aveva in mente non era certo corretto sul piano pro­fessionale né, tanto meno, temeva sarebbe stato accettato dalla National Geografic  Society  o dalle altre accademie, ma era l’unico modo, sicuramente il più diretto, che gli era venuto in mente per aggi­rare l’ingombro di Prigogine e dei suoi sistemi di fluttuazione. Quell’individuo bizzarro  era proprio arrivato a pro­posito
- Bene, signor Percato, è qui che dovrebbe nascere questa Napadia? - chiese con lo stesso tono con cui si sarebbe rivolto a un bambino capriccioso.
Gli occhi di Tebaldo Percato si illuminarono di vera gioia.
-  Si è qui, è proprio qui la nostra terra di donne e di uomini nuovi, ed è qui che deve sorgere la grande Nazione della Napa­dia.
Scorpiade nel frattempo aveva approntato gli stru­menti del suo lavoro. Su un’immensa Carta Geografica che aveva fatto calare dal soffitto non si sa con quale misterioso marchingegno, tutta quadrettata in frazioni  tridimensionali, il cartografo,  ag­grappato a una specie di predellino altalenante che s’alzava e s’abbassava con un giuoco di carrucole e di con­trappesi, tentava d’individuare quei pochi centimetri di territorio che Tebaldo Per­cato voleva assolutamente che diventassero il Libero Stato della Napadia.
- Dunque … mi pare … sì, eccola! Certo che quella carta che mi ha portato ne deve avere di anni! Adesso è tutto cambiato, guardi bene. Vede,  si tratta di un ter­rito­rio piuttosto ricco, con un complesso sistema d’irrigazione. Molte culture su calanchi argillosi rinforzati a terrazzi...
- Ma sì, certo, l’abbiamo fatti noi, e anche i canali, e le strade e le risaie, e gli argini, e i gelsi per i bachi da seta, e là, in fondo, vicino al mare, persino il contrafforte di cemento per impe­dire che la risacca si rubi la terra!
- Bene! Siete della gente veramente ingegnosa - disse Scorpiade mentre si dava da fare con una tavoletta pretoriana e una catena metrica -   ma, perché non continuate la vostra opera da soli? Ci manca veramente un soffio perché la Napadia vi appartenga davvero e voi possiate entrare nella storia come popolo nuovo!
- Abbiamo aspettato troppo a lungo - disse rabbuiandosi Tebaldo - una volta questo era un territorio incognito; ora è per­corso in lungo e in largo da arraffatori che se ne vogliono appro­priare. Lei deve fare per noi, ciò che noi non abbiamo saputo fare per questa terra. Lei ci deve dare dei confini, e li deve mettere tutto intorno - e con le sue tozze mani disegnava una cordigliera a nord della vallata - Vede quelle montagne che ar­rivano fino al cospetto di Dio? Quelle montagne devono fare parte della nostra terra. Ci appartengono, è da lì che sono venuti i no­stri antenati, e poi... - e raccolse da sopra il tavolo dove aveva sparpagliato i suoi album fotografici  un mazzo piuttosto considerevole di foto - noi vorremmo delle città, delle belle città, come ogni stato che si rispetti, e una capitale; abbiamo an­che il nome, un nome solo nostro, che a pronunciarlo richiama già la dimensione di una ricca e potente Nazione: Pondita, la nostra capitale si chiamerà Pondita!
 E tacque mentre  due la­crimoni che gli scendevano sulle guance andavano a cadere pro­prio sopra la vecchia mappa  aperta sul tavolo   che tanto gelo­samente aveva custodita finché il cartografo potesse fare di quel pezzo di carta una nazione.
Scorpiade, nel frattempo, era sceso dalla sua precaria  im­palcatura e gli si era avvicinato per guardare meglio le foto che rigirava tra le mani. Era lì, proprio nel  momento in cui una delle lacrime  di Tebaldo si addensò sulla carta formando un nucleo di colore più scuro, dai contorni leggermente aggricciati che, per qualche attimo, continuò ad allargarsi  ancora sulla superficie.
- Ecco, qui fonderemo Pondita! - disse con una certa en­fasi Scorpiade, cogliendo al volo quel grumo di passione che era colato via dal corpo di Tebaldo Percato - Come ogni capitale che si rispetti deve portare in sé un po’ degli umori degli uomini che l’hanno voluta eleggere, prima tra le loro città! Il legame tra un popolo e la città che hanno scelto a simbolo, perché li rappre­senti e racconti la loro storia, deve essere un vincolo che ha ra­dici nella carne.
Tebaldo lo ascoltava a bocca aperta; quello era senz’altro l’uomo giusto, colui che avrebbe dato dignità di popolo alla sua gente. C’era una moltitudine sparsa in quella superficie priva di luoghi, che attendeva di entrare nella Storia.
Scorpiade, dal canto suo, vedeva  già davanti agli occhi la nuova terra plasmarsi nello stesso tempo in cui lui l’avrebbe pensata e sistemata su quella planimetria vuota. Im­ma­ginava  i suoi colleghi, i più apprezzati luminari della materia, intenti a studiare, a penetrare nei meandri della sua teoria, stu­pirsi di fronte alla manifestazione di  quel pensiero capace di materializ­zarsi al punto da provocare una fondazione.
Prese dalle mani di Tebaldo Percato il mazzo di fotografie e cominciò a stenderle una dietro l’altra sulla superficie del ta­volo.
Erano un gruppo di immagini che raffiguravano monu­menti e spazi urbani arredati con vasche floreali e pan­chine di pietra abbellite con volute neoclassiche. Scorpiade considerò che il gusto pacchiano e alquanto rozzo del suo interlo­cutore era disarmante, ma non fece alcun commento. Voleva interferire il meno possibile, se non altro con la scelta degli oggetti e delle cose che dovevano abitare quella terra. Alcune delle immagini, raf­figuravano vere opere d’arte o almeno parti di esse, poiché, Te­baldo e chissà chi altro  con lui, avevano scelto accurata­mente se­condo un criterio molto vicino a quello di un’agenzia di viaggi che impagina, in un depliant, un bel tour patinato.
L’ingenuo compiacimento del futuro Reggente era arri­vato fino al punto di aver selezionato persino la foto di una sta­tua to­gata su di un basamento a forma di parallelepipedo che rappresentava un personaggio, forse un alto magistrato o comun­que un legislatore, che teneva delle tavole aperte sulle  ginocchia mentre con la mano destra si sorreggeva la fronte in un atteggiamento di estrema concentrazione e che somigliava, in maniera straordina­ria, a lui medesimo.
- Da dove vogliamo cominciare signor Percato? - chiese con voce calma Scorpiade - Ha deciso cosa vuole metterci in questa sua Nazione?
Tebaldo Percato lo guardava perplesso ma soddisfatto.
- Mi piacerebbe farla veramente bella, la mia Nazione. Come vede, ho scelto tutto il meglio che si può trovare al mondo! Però prima di pensare alla forma, vorrei cominciare con qualcosa di molto concreto. Ecco guardi! - e indicò, tra le immagini di  opere memorabili, gallerie e giardini pensili, un edificio neoclassico  con una grossa scritta Banca Centrale - Io vorrei cominciare da qui. 
Scorpiade lo guardò sorridendo.
- Bene, cominciamo pure. 
E, così dicendo, srotolò un’ampia pagina di carta di riso, la spianò bene, prese il suo pennino di sottilissimo metacrile  a getto di china e cominciò a disegnare il profilo di una città.



In quello stesso momento, a molti chilometri di distanza, alcuni uomini autorevoli e potenti, che sorseggiavano affabil­mente un brandy dopo un’importante riunione economica in cui avevano deciso un rialzo dei tassi di interesse, cominciarono a sentire il lucido marmo sotto i piedi farsi molle come cera.
Fu allora che, nella strada centrale della città di Pondita,  sorse, come per miracolo, un maestoso palazzo di marmo bianco.
La popolazione si fermò, fece un oooh di meraviglia e pensò che, finalmente, il Reggente aveva tro­vato il famoso cartografo nella biblioteca di Gravilona dove si di­ceva  avesse riparato per scampare al progressivo collasso di  ma­teria provocato dal  suo lavorìo febbrile.
- Ora  desidero che la mia nazione  abbia memoria di sé e del proprio passato, ma non la memoria rifatta con la Storia dei grandi eventi, almeno fino a che   non  ci sarà qual­cuno tra noi capace di rac­contarla. Non voglio dare loro un passato scritto da altri; è meglio una memoria quo­tidiana, la storia della gente normale che si costruisce l’esistenza giorno per giorno. E voglio un luogo  dove il popolo possa eserci­tare il suo governo,   un’aula solenne, con affreschi e arazzi antichi; e un edificio con stanze ricolme di scaffali e ripiani, come questi - e fece un gesto con la mano che ab­bracciava tutta la monumentale biblioteca di Gravi­lona - ma non libri, devono contenere faldoni e docu­menti a non finire. Chiedo un archivio che scandisca dettagliata­mente le vicende quotidiane e umili   di  gente operosa come è la mia.
Scorpiade era chino sulla carta pergamena con l’occhio attaccato a una spessa lente d’ingrandimento, alle prese con le infinitesimali dimensioni necessarie a comprimere tutta quella quantità di spazio nel  quadratino che doveva  rappresen­tare il Municipio e l’Archivio Generale nel suo  sistema cartografico multidimensionale.

          
Nel grande Archivio di Stato la schiena del tempo è una scura stri­scia dietro un vecchio termosifone.     Le pareti sono scrostate e nello strappo a fiorami rosso sanguinaccio, s’intravedono chiazze d’intonaco grigiastro e muf­foso.
La grata del copri termosifone s’incurva deformata dall’eccessivo calore, l’uomo, assorto in un tomo del 1849, percepi­sce una specie di sfrigolio e pensando a un topo, gira intorno lo sguardo perplesso e assesta un colpo a palmo aperto alla grata per spianarne la superficie e farlo uscire da lì, ma, nel fare questo, la pressione scardina l’intero mobiletto dalla sua posizione.      Dallo spazio provocato da quel dissestamento cominciano a venire fuori, come incalzati da una forza ineluttabile, fogli dat­tiloscritti e pagine coperte di fitte scritture strinate e asciutte. Uscivano incontenibili.
Un crepuscolo rossastro che incendiava gli oggetti entra nella stanza. L’uomo guarda lo strano fenomeno, perplesso, ma senza prenderlo troppo sul serio; crede di essersi addormentato e di stare in un sogno.
Invece, in una frazione di tempo, la stanza intorno a lui non esistette più e con lei si erano dissolti tutti i documenti e le storie di contratti, fideiussioni, nascite, morti, lasciti e migrazioni in essi raccontati.
Contemporaneamente, nella piazza di Pondita, un ventac­cio vertiginoso sollevava nuvole di carta, refoli che svolazzavano turbi­nosamente andando a sbattere, come gabbiani impazziti, con­tro i vetri delle finestre dell’austero Municipio.








Scorpiade e Tebaldo Percato erano ambedue preda di un’eccitazione parossistica, e ognuno trovava nell’altro la rispon­denza speculare della sua esaltazione.
- Ecco, adesso potremmo metterci una grande basilica, per­ché è essenziale che anche lo spirito  abbia il suo nutrimento.
Nel dire ciò, l’uomo, sceglieva tra le foto delle centinaia di catte­drali e di chiese quella che, secondo lui, poteva rappresentare al meglio il sentimento di spiritualità che lo muoveva, così che, un immenso duomo, ibrido tra la chimerica visione di  Notre Dame e  la spoglia semplicità della chiesa di S. Francesco, veniva collocato in una sconfinata piazza dei Miracoli, dove già erano allineati la torre Eiffel, il Colosseo, e l’imponente tempio buddista di Feng Hsien.
Come Tebaldo Percato apriva bocca, Scorpiade,  immedia­tamente,  si apprestava a dare forma ai desideri allucinati della sua mente sovreccitata.
La vasta pianura, fino a poco prima piatto e uniforme  sconfinamento di terre senza rilevanza alcuna era,  adesso, so­vraccarica di simboli grafici che rappresentavano ciò che  di più meraviglioso e imponente avesse  prodotto nel corso dei se­coli l’ingegno umano.
Segni che raffiguravano ferrovie, strade, cimiteri, condut­ture, agglome­rati urbani, giardini, fontane, antenne, stadi, fabbri­che; ogni forma di modernità vi era sperimentata, linee avve­niri­stiche di autostrade e sopraelevate; spericolati sottopassaggi tra la riva destra e la riva sinistra di quel fiume che percorreva  la pia­nura in tutta la sua lunghezza.
Ogni cosa era scrupolosamente  incasellata in quel territo­rio vergine e che era rimasto tale fino a che Scorpiade non aveva speri­mentato la sua teoria della contiguità
Tebaldo chiedeva un osservatorio astronomico da mettere sulla vetta più alta di quella catena montuosa che aveva voluto come confine estremo della Napadia? Scorpiade correva come un invasato, attraversando corridoi e scalando scaffali, fino al­ set­tore dove era perfettamente  ordinato tutto lo scibile sulla  geo­grafia astronomica e una volta tirato fuori  il volume su Gli Os­servatori, ovvero il punto di vista migliore per guardare il cielo di AA. VV. a cura di Keplo Galei, con la fotografia a colori  dell’osservatorio del monte Palomar, rifaceva il tragitto all’inverso fino a  raggiungere Tebaldo Percato  che lo attendeva con l’indice puntato sulla cartina, proprio dove voleva che l’Osservatorio fosse si­stemato .
- Che ne pensa Maestro - chiedeva Tebaldo, che ora chia­mava il cartografo con quell’appellativo che riteneva più consono a dimostrare la sua deferenza - se qui,  sì, proprio qui, vicino al nostro fiume, ci piazzassimo una bella fore­sta di  baobab  e que­sto sottobosco tropicale così lussureg­giante ed esotico? - di­ceva mostrandogli la fotografia di una foltissima selva pluviale.
Scorpiade, che mai  e poi mai si sarebbe permesso di spo­stare un granello di sabbia dal deserto, oramai preda di un de­lirio frenetico, correva fino allo scaffale dove erano raccolte le schede botaniche  di tutte le piante del mondo  e una volta trovata la pa­gina della Adansonia Digitata ne memorizzava,­ meticolosamente, ogni particolare  per  andarla quindi a collocare in quell’ansa  del fiume dove avevano già piazzato l’Empire State Building e i Giardini Pensili di Babilonia.




Tebaldo Percato non stava più nella pelle. La  Napadia, sotto i suoi occhi, era diventata una vera nazione, con città, fabbriche e luoghi di incommensurabile bellezza; anzi era la terra più fertile e più ricca che mai fosse esistita al mondo.
Ma ciò che a loro, chiusi in quella fortezza, sembrava solo una sorta di gioco a incastro sempre più macchinoso e coinvol­gente, per la Napadia era diventato una vera, reale minaccia. Sovraffollata di cose e di oggetti che continuavano ad arrivare da ogni parte, andava sprofondando a un ritmo che si centuplica con il trascorrere dei minuti. I suoi abitanti, quel popolo appena nato, a cui un cartografo impazzito aveva da poco riconosciuto il diritto all’autodeterminazione, soffocavano sotto l’esorbitante quantità di materia, anzi,  qualcuno addirittura  ne moriva, schiac­ciato com’era da quel precipitare di castelli, ville, monumenti equestri, sopra la sua testa.
I due  uomini di tutto ciò non sapevano niente. Chiusi tra le spesse mura della biblioteca, ignoravano comple­ta­mente ciò che di tremendo accadeva fuori. Gli spostamenti e le traslocazioni da un territorio all’altro, i palazzi che scompari­vano in un luogo per ricomparire in un altro, creavano dei terri­bili vuoti di materia  e, dove l’assenza diventava più consistente e netta, lì c’era un precipitare del mondo circostante nel nulla.
Quei movimenti vorticosi, creavano strane cor­renti e così tante alterazioni nel campo magnetico che intorno alla bi­blioteca di Gravilona si cominciarono a sentire minacciosi crepitii e un vorticare mugghiante di una tale  furia che anche le salde radici  dell’edificio,  iniziarono a scric­chiolare. Allora si innescò un cadere degli oggetti fuori dalla loro collocazione e  libri  di ogni dimensione, presero a galleggiare assieme alle suppellettili,   ai tavoli, a ogni cosa­ ina­nimata si trovasse nel perimetro della biblioteca,  in un sot­tosopra disorientante.
Poi, come tutto  era principiato, tutto finì.
Si fece all’improvviso un silenzio raggelante.
- Mio dio - disse  Tebaldo Percato annichilito dal crepuscolo inesorabile che dilagava nero e vuoto - dobbiamo uscire da qui! - e si precipitò attraverso i lunghissimi corridoi inciampando, nella sua fuga, nei libri che erano venuti giù dal loro incasellamento meti­co­loso.
Scorpiade rimase impietrito. Ritrovata, nel terrore da cui era stato assalito, la lucidità che lo aveva sempre contraddistinto, seppe di  aver compiuto un atto  terribile di superbia e di orgo­glio.  Il mondo, ormai definitivamente dissipato nella sua essenza, sta­va precipitando in quell’enorme buco nero che risucchiava materia inerte. E  la biblioteca di Gravilona era l’anima stessa di quel vortice inesorabile.
 Il vuoto eccedeva ogni limite, e milioni e milioni di donne e di uomini    galleggiavano nello spazio,  in as­senza di un mondo dove aggrappare le loro vite.
- Sono solo il sogno di un  dio ubriaco  - ebbe il tempo di pensare  Scorpiade  mentre il risucchio che aveva inghiottito Te­baldo Percato lo stava già afferrando per i piedi - e questo luogo, la grande biblioteca di Gravilona,  con tutti i suoi percorrimenti  che non arrivano mai da nessuna parte, è la sua mente immensa e senza tempo, e i libri, i volumi che contiene sono  le forme so­lide del suo pensiero infinito, e le mie mani leggere e volatili come fantasmi, che hanno disegnato mondi e terre e illuminato per un attimo il sogno di qualcun altro, la sua vertigine di po­tenza. E ora che Lui si sta svegliando, tutto finirà per sempre.
Nel buio fondo della notte dei tempi, uno sbattere di ali gi­gantesco frullò l’eternità. Il dio ubriaco avvertì una solitudine schiacciante e una folata di tenebra lo raggiunse solo una fra­zione di secondo dopo aver pensato.
- Povero me, non sono altro che il sogno di una farfalla che sogna di essere un dio.





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