amorino alato

amorino alato
C’era in lei, tuttavia, un angolo segreto dove non arrivava il riverbero di nessuna luce. Da lì veniva quella voglia di tenere a bada il corpo e la materia che gli dava forma; lì fluttuavano profumi intensi e dolcissimi, e fruscinìo di sete leggere e il seno bianchissimo di Rosa la Parda. Lì, coltivava il giardino di un’altra vita che ogni tanto, a occhi chiusi o nel sonno, andava a visitare.(Amore Anomalo - daniela frascati)

sabato 18 giugno 2011

IL CARTOGRAFO di Daniela Frascati

Il Cartografo è uno dei due racconti che facevano parte di Incunaboli Futuri, l’altro è Bassa Realtà. Ora che i diritti d’autore sono di nuovo in mio possesso lo pubblico qui, in due parti. Proprio in occasione di Pontida e delle “pretese” della Lega. Leggendolo ne scoprirete il perché.
Sono  storie di cui Maria Rosa Cutrufelli, nella prefazione al libro, aveva scritto queste parole:
Hanno una sorprendente capacità, questi due racconti di Daniela Frascati: la capacità di inventare metafore adeguate al nostro tempo e di narrarci, attraverso queste metafore, il 'grande disordine' contemporaneo, la confusione di un mondo in bilico tra il reale e il virtuale, il desiderio di sovrapporre l'immagine della realtà alla realtà, fino a farle coincidere.
Chi è Tebaldo Percato, questo personaggio eccentrico che nel primo racconto chiede al cartografo Scorpiade di dare nome (e quindi esistenza) alla Nazione dei suoi sogni, la Napadia? Un visionario, un politico ambizioso o semplicemente un uomo che crede alla forza della sua utopia (perniciosa) tanto da renderla viva e operante?
Ma quando la riduzione del mondo alla sua immagine è compiuta (ed è Scorpiade a fare il miracolo), ecco il sogno entrare in collisione con la realtà. E tutto precipita in un vortice in cui galleggiano "milioni e milioni di donne e uomini" che non sanno più "dove aggrappare le loro vite".



  
IL CARTOGRAFO
di
Daniela Frascati



(Prima parte)              


La costruzione era  una  struttura circolare, fatta di una sostanza terrosa che pareva racchiu­dere la potenza  creatrice e oscura della materia. Una gi­gante­sca cupola la sormontava. Eppure, qualcosa d’incongruo, una sorta di polvere sottile come cenere  ne  corrompeva  la grandezza.
Ciò  che  impressionò il viaggiatore fu la luce  chiarug­ginosa che avvolgeva l’edificio. Finestroni, con  vetri giallo sacrestia, correvano tutto intorno, ma non era da lì che  originava l’albore.
Con circospezione l’uomo avanzò nell’emici­clo antistante.  I suoi passi rimbombavano come colpi sordi nel silenzio assoluto. Sollevò la testa verso l’altissimo architrave che sormontava la facciata per leggerne l’iscrizione: BIBLIOTECA DI  GRAVILONA e più sotto QUAEDAM FALSA VERI SPECIEM FERUNT1
Certo di essere arrivato nel luogo giusto si fece avanti fino al massiccio portale  di legno.
Dentro, un andito scuro e umido conduceva a uno smisurato salone tappezzato di scaffali interminabili, interrotti qua e là, a un’altezza che dava le vertigini, dai finestroni che si vede­vano da fuori, in corrispondenza del primo piano.
Gli scaffali percorrevano l’edificio in ogni direzione, descrivendo strade e slarghi, in una geometria strabiliante e sfalsata fatta di angoli vuoti e di rientranze improvvise che non porta­vano che all’altra faccia della scaffalatura e, tutto quel per­corso chilometrico, era tempestato di dorsi di volumi, tomi, libri, atlanti, fascicoli, incunaboli.
Il viaggiatore, che con i libri e la parola scritta aveva poca confidenza, rimase per un attimo sconcertato poi, tornato in sé, riprese possesso dell’idea che l’aveva condotto  lì e continuò la sua ricerca.
La luce, in quei cunicoli, procedeva a sbalzi dilatandosi, quasi a ferire la vista, negli slarghi dove ampi tavoli ingombri di volumi erano predisposti alla lettura e alla consultazione, affie­volendosi, fino a farsi ingoiare dal buio, negli stretti corridoi e  negli alveoli incavati nelle pareti. Con un certo sforzo riuscì final­mente a scorgere in fondo a un lungo passaggio, proprio nella piazzola  che si apriva di fronte ai volumi  sulle Eresie nel corso dei secoli, colui per il quale aveva vagabondato per chilometri e chilo­metri in quelle terre oramai ab­bandonate da dio e dagli uomini.



Scorpiade lavorava con grande lena. L'ampio tavolo era sommerso da carte geografiche, atlanti, pergamene preziose e an­tiche rappresentazioni del mondo. Appunti sparpagliati ovun­que. Segni tracciati su pezzetti di carta che al  più piccolo  movi­mento   si mescolavano, avvicinati  da  quell'effetto  invisibile delle mole­cole che, sospinte da pola­rità differenti, si cercano tra loro.
Del  resto, una volta che aveva tratteggiato con la matita i contorni  di un territorio, i suoi dislivelli o gradi di altitudine, Scor­piade lasciava che l'appunto venisse fagoci­tato dalla sterminata quantità di carta da cui era eternamente  circondato, poiché, per un'eccezionale dote della memoria, poteva, a  suo piacimento,  rintracciarne  l'impianto nell'ar­chivio straordinario  che  aveva messo  a  punto nella sua testa e, da lì,   richiamarlo in qualsiasi  momento  e trascri­verlo  su una mappa,  completo di ogni parti­colare che fosse utile  per una corretta interpretazione.
Tutti quei  fogli  erano dunque minuziosamente per­corsi  da  segni  che significavano altro. Il più delle volte ne eludevano, necessariamente, la dimensione  e  la grandezza e, forzatamente, il grado di veridicità. La  realtà  per Scor­piade,  in quanto forma ra­refatta ma vacua del pensiero, fi­niva spesso  in un  eccesso di pre­senza che poteva impedire ogni possibilità di lettura  della carta.  Per  questo interve­niva con innesti, collegamenti e ri­mandi  che  costruivano  una complessità talmente prossima alle ricerche sulle pro­prietà  a-scalari  di Mandelbrot sulla geo­metria frattale, che facevano di lui non  solo un  cartografo di grande espe­rienza ma uno studioso e un ricercatore geniale.  La sua passione era la continuità e la contiguità che  sapeva  a rintrac­ciare  tra  l'eccessivamente materico e persi­stente,  come  una  ca­tena montuosa  o  una foresta pluviale, e la sua rappresenta­zione  grafica,  minuti segni convenzionali che, nella loro astratta sem­plicità, potevano descrivere  le strutture enormemente più com­plesse di cui erano il fondamento. 
Pur  non  allontanandosi  mai dall'assioma per cui una  carta  offre  un ritratto  rimpicciolito  ma sempre riconosci­bile del  mondo  reale,  possedeva quella  speciale  legge­rezza  con cui ri­usciva a svincolare  i  territori  che rappre­sentava nelle sue mappe, dall'asservimento dello spazio dove erano imprigionati da che esisteva il mondo e dove sarebbero rimasti confinati per sem­pre se non fosse inter­venuto lui, con la sua azione affranca­trice.
Quell'uomo  accurato  e  meticoloso entrava diretta­mente  nel  tempo  e, allora,  un  luogo  non era soltanto un'estensione  spaziale  della  percezione dell'occhio  ma, soprattutto, uno spes­sore temporale di eventi che lì  si  erano sovrapposti.
Pareva che Scorpiade possedesse la facoltà di evocare con il suo  tratto sottile  e  fermo territori e lande lontane, terre mi­steriose e  nasco­ste  che vivevano nella geografia recondita della memoria e scio­glierle  dall'assoggettamento  del  ricordo, poiché come afferma Woolbridge,  " il suolo  e  non  la carta...è  il primo documento " e la ricerca del car­tografo  consiste  proprio nel tentativo di col­mare questo scarto.
La  sua sorprendente abilità l'attribuiva all'insegna­mento, cui non  era mai  venuto meno, del vecchio maestro, Margal Lupita che, fin dalle  prime escursioni sul campo, l'aveva abi­tuato ad abbozzare su frammenti di carta, dati e  proiezioni  da  con­frontare,  sezione per sezione,  con  le  vecchie  carte del­l'area sot­toposta a rilevamento, poiché è l'occhio che vede e che con­fronta  il  fondamento di ogni cartografia possibile.  La com­para­zione era, dunque,  il solo  sistema  per sfuggire il rischio di un modello che  ordinasse  il  mondo secondo un pensiero forte e unico, ed  era questa la ragione  per cui Scorpiade si  muoveva  pe­renne­mente in mezzo a vortici di appunti, carte, mappe, che  gli confe­rivano un che di geniale e di bizzarro. Non voleva azzardare. Affidandosi  alla  sua straordinaria e meti­colosa memoria aveva paura  di  redigere mappe che affon­davano in ri­cordi troppo con­tigui con l'emozione di un odore  o di  una  lu­minosità parti­co­lare e il tempo, inoltre,  poteva  aver  conden­sato certezze dove non doveva esserci che passione per la ricerca e la  sperimenta­zione.  I  suoi  ap­punti svolazzanti diventavano quindi  la  mate­ria  empirica attraverso la quale metteva in pra­tica la sua perso­nale teo­ria della relatività.
La  cosa che più sorprendeva in lui, era l'abi­lità prodigiosa  con cui  trattava  la materia e l'accortezza con la quale riusciva  a  farlo.  Per questo, ciò che nel suo aspetto con­quistava immediatamente l'attenzione,  erano le  mani; di un pal­lore evanescente, quasi immateriali nella loro  leggerezza. Era  una meraviglia vederle al lavoro agili e irrequiete; solo allora, ci  si rendeva conto come ­l'arte, di cui sembrava natu­ralmente  dotato, fosse invece il frutto di un addestramento co­stante e acca­nito.
Quelle  mani fluide e insinuanti come un alito di po­nen­tino, asciutte  e brucianti come una folata di vento del deserto e che teneva in costante  allenamento,  facendo gi­rare e rigirare tra le dita e il palmo tre biglie  di  rame con inusitata maestria, cor­revano, bianche e febbrili, da un capo  all'altro della grande car­ta­pergamena, l'opera omnia, cui Scorpiade lavorava da anni: la Carta Monadica Totale, così gli piaceva chiamarla. Un corpo unico che,  attraverso una raffinatissima tecnica, utilizzava por­zioni di ter­ritori, come fossero mosaici di aree locali perfetta­mente comba­cianti tra loro, ma che  potevano facilmente  essere tra­sformate in sub-aree, di più facile manipolazione,  tali da   essere utiliz­zate come infrastrutture,  modalità  si­stemi­che  della carta. A prima vista sembrava di avere sotto gli occhi un re­ticolo dove  ogni quadratino o monade era confine e limite per sé e per ogni altro  quadratino, ma, allo stesso tempo, era sconfi­namento e pro­seguimento dell'altro, e  dell'altro  ancora, in un gioco di interse­cazioni e percor­rimenti che  alteravano  la perce­zione al punto che, la Mappa, pareva improvvisa­mente animarsi come uno  strano essere tentacolare e perfino Scorpiade  faceva fatica a  stenderla  sul pavimento della casa e a trattener­vela. Pianure  illimitate, fiumi impe­tuosi, prende­vano forma come se, le sue mani, possedessero lo  straordi­nario  dono  di mutare l'irrefrenabile energia da cui  erano  dominate  in sostanza.
Una materia duttile  plasmava il mondo e lo ricondu­ceva all'essenzialità planimetrica della  Carta Monadica To­tale, frutto di tutte le sue conoscenze e  sperimentazioni, e somma delle espe­rienze e delle teorie di tutti i  cartografi che fino ad allora si erano provati a rappresentare il mondo nella sua interezza e globalità. 
Conquistando territori e spazi, giorno dopo giorno, ora dopo ora, le  mani preziose di quell'uomo si accanivano nel met­tere assieme segni, colori, sfumature, viaggiando tra il segno e la cosa con rara maestria e accortezza.  Erano lo squarcio di me­mo­ria che illuminava improvviso la strada di campagna dove una donna, persa nei suoi pensieri, in quel paesaggio a perdita d’occhio, procedeva con calma e con  mollezza.  Fu in quel punto, in un tempo che andava via alla de­riva, segnato da un­ in­torbidamento del segno sulla  carta, che  uno sconosciuto l'aveva  aggredita.
Lì, su quel viottolo appena tracciato, seminascosto tra rovi di more e di lupino bianco, proprio sul ciglio dove la polvere della strada si confonde con il terriccio ferroso dei campi di pan­nocchie, l'umore greve di  quell'amplesso e  le lacrime salate della donna avevano formato un grumo tal­mente  denso  che, per  quanto Scorpiade volesse,  sfuggiva ogni volta al suo tentativo di  emen­darlo  così che, di fronte alla carta, ognuno poteva sen­tire sulla  propria pelle l'efferatezza di quel gesto e il dolore cupo che alla donna aveva  spezzato il cuore.
Scorpiade,  nel  preciso istante in cui stendeva la  sua  Carta  Totale, traversava  il  mondo e lo rinominava ogni volta, poiché, ogni volta,  i  luoghi erano altri da prima. Di­ceva il noti­ziario che quella mattina in un fiume  che si chiamava Om­broso, un gio­vane, preda di un patimento forte di solitudine e di amore  capo­volto, aveva cercato  la morte. Le mani di Scorpiade,  quasi alla cieca, lo rintraccia­vano immediatamente sopra la vasta super­ficie; sottile  filo azzurrognolo sul giallo ter­roso di una isoipsa. Lì,  quel  pa­timento irrimediabile, aveva rotto il fluire pa­cato del fiume e  ora provocava un salto impetuoso  della cor­rente  che schiu­mava in una ripida cateratta di sasso calcareo, sotto il sole impietoso d’aprile.
Scorpiade aveva trovato la soluzione all'unico pro­blema da sempre  insolubile per il geografo, rappresentare, contempora­neamente, la continuità spaziale  e  temporale senza sacrificare alcun particolare del territorio esaminato,  né  ridurre l'osserva­zione  a  una  breve serie di dettagli temporali  parziali.  Lui  era riuscito a ri­comporre la frequenza e la correlazione spaziale, in più,  incorporandovi  la  dimensione  sotterranea della stratifica­zione di  un  evento  nel tempo ma, ora,  ogni momento della sua giornata era ossessionato dalla necessità di continui adegua­menti. Registrava con puntiglio ogni mutamento o evolu­zione del terreno nella sua mappa così che, i territori di quel mondo fatto  di strati  e  di memorie, diventano sempre più smi­surati e finivano  per  usurpare ogni  spazio  disponibile  e non c'era più posto, intorno a lui,  che  potesse contenerli.
Già  i fratelli e la vecchia madre, i vicini, e piano piano tutti gli abitanti di Gravilona,  erano dovuti fuggire  via,  incalzati  in  una  migrazione  forzata da quell'accre­scimento  vir­tuale  che  intaccava, sgretolava  letteralmente il terreno sotto i loro piedi e, il povero  Scorpiade, cominciava a sentire il fiato gelato di una soli­tudine divorata da suo  lavorio sfrenato.
La biblioteca, edificio misterioso, di cui nessuno aveva memoria e che, si diceva, fosse stato costruito in una sola notte, era l’unico posto, in quella città, capace di resistere al dissipamento  che la stesura della Carta Monadica Totale  provo­cava. Unico luogo che, fino ad allora, era stato risparmiato dalla corro­sione  cui era soggetto il mondo intorno a Scorpiade. Il solo spazio che poteva ormai abitare e che sembrava difenderlo dalla disperata forzatura che lo costringeva  a disegnare planimetrie e carte geografiche.
Quel giorno, mentre cercava di ricostruire i confini di una en­clave  cancellata  dal  sangue di una guerra lampo e che do­veva essere reintegrata  al  più presto,  poiché  i sopravvissuti va­gavano su quella terra affamati  e  storditi dalla  nostalgia con nuovi nati e qualche vecchio preservato per  tramandare la me­moria, un uomo che non aveva mai visto prima si fece avanti  traversando  l’immensa biblioteca.
Lo  sconosciuto, appena gli fu di fronte, ignorando ogni più elemen­tare norma  di  buona educazione, iniziò, assai confusamente,   a parlare di un bizzarro quanto fumoso progetto che sembrava governare i suoi pensieri  come un’ossessione e, solo dopo una buona  mezz'ora, gli venne in mente di pre­sentarsi a Scorpiade come certo Tebaldo Percato, Fondatore Reggente del Libero Stato di Napadia. Quella rivelazione assolutamente im­prevedibile, lo sconvolse a tal punto che il sangue gli salì agli occhi e le sue carte  assunsero per un po’  una sgradevole ve­la­tura rossastra.
Superato  questo  primo ma non irrilevante impatto con il visitatore, Scor­piade  cercò  di capire cosa volesse da lui quel tipo che in modo  febbrile ed enfatico parlava  della Li­bera Na­zione di Napadia e della necessità che,  finalmente,  il suo po­polo potesse  vederla rappresentata, come avviene per ogni Na­zione che si ri­spetti, su di un Atlante geografico.
Tebaldo Percato spiegava con impeto, fin nei mi­nimi dettagli,  che tipo  di mappa voleva da lui, tirando fuori da una gigantesca  borsa  di tela un volumi­noso album di  foto­grafie, alcune in bianco e nero, dai  contorni incerti e sbia­dite dal tempo,  che raffiguravano monu­menti,  antichi pa­lazzi  nobiliari, oppure  campa­gne assolate disseminate di  mac­chie  scure che, a uno sguardo più attento, si riconosce­vano come ani­mali al  pascolo.  Le foto più recenti,  dai colori vi­vidi e smaltati che luccicavano  sotto  le lampade a neon, erano quasi tutte riprese di palazzi modernissimi, dalle  architetture  audaci  e  innovative, o prospettive di strade  dove  si  affaccia­vano opu­lente vetrine che suggerivano una città prospera di commerci e di scambi.
Scorpiade le guardò  con attenzione, rigirandole più volte tra le  mani; di certe ne ritrovò immediatamente la traccia nella memoria, ma la loro rispondenza geogra­fica non era con­forme assolutamente a quella presunta Na­zione, la Napadia, della quale, con sconcerto, Scor­piade non ricordava nulla, nep­pure i colori della bandiera. Solo molto più tardi, quando già la considerazione che aveva del suo lavoro e dei suoi studi co­min­ciava a vacil­lare, Tebaldo Percato chiarì l'equivoco  in cui l'aveva fatto cadere: la Napadia non esisteva, non c'era  e non  c'era mai stata fino ad allora, ma viveva invece nel cuore e nella  mente di  quell'uomo  appassionato ed esu­berante e, a sentir lui, era nei  desideri  e nella  determina­zione  di migliaia di uomini e di donne che vivevano  in  una vasta plaga fertile e brumosa.
Risultò  del  tutto inutile cercare di far comprendere a  quello  strano personaggio che, né la geografia, e tanto meno la cartografia, erano discipline di cui  si potesse abusare, usandole a proprio piacimento per soddisfare  il  capriccio o la vanteria di qualcuno.
La cartografia era una scienza che poteva partire da cer­tezze e generare ipotesi o partire da ipotesi e generare certezze, ma certamente non  poteva fondarsi sul nulla.
- Vede,  Signor Percato, quello che lei mi sta chie­dendo  è  decisamente contro natura. Come può controllare lei stesso, da nessuna parte quel  territorio è mai esistito!  - e Scorpiade spar­pagliò con un certo impeto e  malcelata ir­ritazione  un mucchio  incredibile di mappe e atlanti sotto lo  sguardo  imperturbabile di Tebaldo Percato.
- Va bene, va bene, ma non se ne preoccupi, vorrà dire  che, se  non c'è da nessuna parte, la dise­gnerà lei ora, qui, per me. Eh, se no,  troppo facile  sarebbe!  Che sarei venuto a fare, se già  fosse  esistita  una carta   geografica del Li­bero Stato di Napadia? Mica sono scemo, caro  il  mio carto­grafo, a me non è riuscito a fer­marmi nessuno fino ad ora, e sì che ci  hanno  provato in tanti!  Non ci si vorrà mettere anche  lei,  per caso? Io sono pronto a tutto, sa?! Perché  vede, se lei non mi dise­gna questa carta, con i suoi bei confini, precisi e  al posto  giusto, non posso neanche aprire sedi diplomatiche  e conso­lati! Lei lo sa questo?  Quindi, spero si renda conto di quale alto com­pito è stato investito.
Scorpiade  si tormentava  le delicatissime mani men­tre una stretta acida alla bocca  dello stomaco  gli  dava il segno che il suo flemmatico equilibrio  era  lì,  lì.  per saltare.  Cer­cando,  in  un ultimo tentativo, di far ragionare quell'assurdo per­sonaggio che forse, come accadeva a molti pazzi, voleva sol­tanto arrogarsi del titolo di Reg­gente, si provò  di nuovo  a spie­gare.
- Lei si ostina a non voler capire. Vede, la cartografia non è,  né  può essere,  il capriccio di un momento di esalta­zione e, tanto meno, una  forzatura della  realtà.  Io sono un cartografo im­portante, sono un'autorità  in  questo campo,  per cui mi creda quando le dico che non mi è con­sentito, per una  que­stione di deontologia professionale, cambiare le carte in tavola e falsare  la planimetria di un territorio. Insomma, nessun carto­grafo potrà mai sostituirsi agli  storici, agli economisti, agli stu­diosi dei co­stumi e delle  tradizioni. Io,  potrei  solo  limitarmi a riportare su una carta tutto  ciò  ...  se  esistesse, in ogni caso! Ma vede  si­gnor Te­baldo - e cercò persino un tono più con­fidenziale  e affa­bile -  queste cose non ci sono, non esistono. Perché se  esistessero,  la terra che lei evoca, sarebbe qui, ora, tra me e lei, grande,  masto­dontica  materia  compatta, che io non potrei eludere e a cui  do­vrei  piegarmi docilmente.  Tuttalpiù,  volendo interferire, potrei re­gistrare qualche  aggiu­stamento,  arricchirla di qualche parti­colare, inserire addirittura un ele­mento virtuale, che, per altro,  di­verrebbe  immediatamente realtà per il principio delle rela­zioni comunicanti, lo stesso dei  vasi comunicanti  della fisica. Ma la Napadia di cui lei mi parla, non è  altro che una persistente illusione. Una terra senza radici, non può generare ideali, né cul­tura, né opere umane, e tanto meno  passioni e sofferenze tali da fondare una legatura  di san­gue.  Non si può far nascere dal nulla un popolo  e  ancor meno una nazione. Perciò non mi chieda l'impossibile.
Scorpiade  terminò il suo lungo discorso e, certo di es­sere stato  più  che convincente, si apprestò a to­gliere da davanti a Te­baldo Percato  la gran quantità di carte e di atlanti che avrebbero dovuto provare  ciò che aveva appena asse­rito. E, per sottolineare che  per quanto lo riguardava il colloquio era fi­nito lì, aggiunse.
- Vede quanto lavoro ho accumulato nei i miei anni di stu­dio? Pensi che tutte  le planimetrie, mappe, carto­grammi, dovrò riportarle  nella  mia opera  omnia, la Carta Monadica Totale, elaborata seguendo la teoria  della car­tografia  psicoanalo­gica.  Ma mi scusi se le faccio perdere tempo e  l’annoio  con  discorsi troppo  complessi per un profano, pure lei avrà il suo da fare  in qualità  di  Reg­gente della Napadia – e malgrado avesse una  gran  fretta  di congedarlo  e tutto il suo discorso non mirasse che a questo, non poté  resistere  alla  tentazione di ag­giungere con tono puntiglioso - nonostante  sia  una nazione che non c'è!
Tebaldo Percato non si scompose, era abi­tuato a incassare ben  altri affronti, perciò non volle intendere l’accento di commiato che Scorpiade aveva dato al discorso. Ignorò persino che il cartografo gli aveva rimesso in mano il bor­sone di tela nera rigonfio di  scartoffie e di fotografie; anzi, facen­dosi spazio tra quella gran massa di volumi, carte geografiche e fo­glietti volanti, cercò un posto deve potersi finalmente sistemare. Si se­dette su uno scranno polveroso, vicino a un ­tavolo in­gombro di mozziconi di colori a cera e di tamponi, cercò un ap­poggio per i piedi e avendolo individuato in una pila di volumi posati sul pavi­mento,  si sfilò le scarpe polverose e sformate tirando un sospiro di sollievo.
- Mi scusi sa, ma ho camminato tanto a lungo per trovarla... - si giustificò.
Scorpiade lo fulminò con un’occhiata ma decise di mo­strare indifferenza così da scoraggiarlo e costringerlo ad andar­sene.
Si rituffò con accanimento nei suoi segni. Quel giorno stava tentando di risolvere una delle questioni fondamentali della geografia: il problema del cambiamento.
Era quello il nodo non solo teorico ma sostanziale che lo aveva contrapposto a Prigogine.
In un mondo, dove la struttura di persistenza temporanea è incessantemente sottoposta all’azione frenetica e pervasiva degli eventi, ogni mutamento,  anche il più impercettibile, provoca un’esaltazione della qualità instabile di cui è costituita la materia. E  quell’universo è costantemente sospinto sull’orlo del caos, malgrado un niente, possa far sì che tutto, sulla carta, si solidifichi  e torni a ricomporsi. Nel mondo di Prigogine, tutti i sistemi sono incardinati l’uno nell’altro in una catena di combi­nazioni in perenne fluttuazione da determinare un ordine che  ha nel cambiamento la propria regola e nel punto di singo­larità o di biforcazione la sua stessa dinamica. Un  ordine im­pre­vedibile  che fonda nell’oscura arbitrarietà dell’evento, l’evoluzione dello stesso. Aveva individuato insomma un criterio che, attraversando le fluttuazioni, rendeva una sequenza iniziale punto di non ritorno ma, allo stesso tempo, elemento fondante di un tempo e di uno spazio a venire, il cui germe era già conte­nuto nella stessa prerogativa di esistere.
- La geografia del mondo è così disseminata di mozziconi di memorie, di luoghi spuri dove non sarà mai pensabile far fun­zio­nare un modello di equilibrio costante tale, da poterlo comparare in qual­siasi punto del sistema, a meno che... - questo pensava Scorpiade quando improvvisamente gli venne in mente la frase di Prigogine che il suo maestro Margal Lupita citava a conclusione di ogni le­zione -  Viviamo in un mondo dove coesistono diversi tempi tra loro intrecciati e i fossili di molti passati.
E quella frase gli rivelò all’improvviso tutta l’abnormità di quel paradosso.
Certo il suo lavoro, la Carta Monadica Totale che do­veva condurre oltre le barriere del tempo e dello spazio e com­pren­dere per la prima volta, intersecate nella stessa sostanza, la di­mensione di ogni passato e di tutti i possibili futuri, sarebbe stata, anzi  era senz’altro, la summa di ogni conoscenza  in fatto di geografia e di scienze comparate. Era come se Eistein fosse ri­uscito a rappresentare su una mappa la relatività! Per tutti e due, la distanza tra passato, presente e futuro era solo un’ostinata,­ per­sistente illusione. Scorpiade sapeva con certezza di essere pros­simo a una sconcertante rivelazione; ma ogni  volta che si avvicinava al nucleo pesante di quella scoperta,  la teoria di Prigogine  e del suo ordine attraverso la fluttuazione, gli rovinava tutto.
Ogni singola fluttuazione o combinazione di fluttuazioni gli si manifestavano tanto potenti e scardinanti, da avviare una re­troazione che sconvolgeva la posizione spazio-tempo­rale appena raggiunta nella rappresentazione grafica.
Era intento a rimuginare tutta quella complessità di pen­sieri,  quando un ronfare monotono e leggermente sibilante in­ter­ruppe il filo  dei suoi ragionamenti.



1 Più di una cosa falsa ha l’essenza del vero (Seneca)

(continua)

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