amorino alato

amorino alato
C’era in lei, tuttavia, un angolo segreto dove non arrivava il riverbero di nessuna luce. Da lì veniva quella voglia di tenere a bada il corpo e la materia che gli dava forma; lì fluttuavano profumi intensi e dolcissimi, e fruscinìo di sete leggere e il seno bianchissimo di Rosa la Parda. Lì, coltivava il giardino di un’altra vita che ogni tanto, a occhi chiusi o nel sonno, andava a visitare.(Amore Anomalo - daniela frascati)

martedì 22 marzo 2011

La città delle mille ombre AUTORI PER IL GIAPPONE

Ogni città riceve la sua forma
        dal deserto a cui si oppone; e così
         il cammelliere e il marinaio vedono
                                                                                     Despina città di confine tra due deserti.
Italo Calvino “ Le città Invisibili”  





La città delle mille ombre
di
Daniela Frascati


Scelgo di parlare di ciò che ci appartiene e non di ciò che ci sovrasta. La natura è madre e matrigna e al suo imperio non si comanda. Ci piega, mostrando i limiti umani che dovrebbero essere la misura della nostra saggezza. E, dunque, non saprei raccontare delle città scomparse e sommerse dentro lo tzunami di 23 metri d’acqua, né della forza inusitata di un terremoto che è sembrato riportare la terra ai suoi primordi, ma dei creatori dell’orrore di Fukuschima, un tempo famosa per le sue sete e i suo tessuti, sì.
Loro ci appartengono. Appartengono alla specie umana anche se non ne hanno avuto rispetto e hanno consentito che l’orrore si aggiungesse al disastro.
Un mio amico dice che il terrore è l’attrazione per ogni spettacolo; e infatti siamo qui a guardare, ad attendere il prossimo. Perché ci ingozziamo di immagini, ne facciamo indigestione e le espelliamo, allontanandole da noi, perdendo la memoria di ciò che di tragico avevano dentro.
L’orrore che passa sui nostri teleschermi  ha già avuto un nome e un luogo, 25 anni fa, ed è questo luogo dimenticato che  voglio nominare ma che spero non sarà, domani, il futuro di Fukuschima.
Dirò della città di Chernobyl, perché i creatori di quell’orrore non lì ho visti in faccia ma li immagino uguali a coloro che vengono a giustificare il fallimento della loro onnipotenza dagli schermi della tv.  Quelle morti e quel disastro non ci commuovono più; il tempo rimargina le ferite e fa dimenticare  la paura. Fukuschima è ora l’altra Chernobyl che  si performa sullo stesso orrore in mezzo al deserto che ha lasciato il terremoto e lo tzunami.
Chernobyl non l’ho mai vista per davvero, così come il Kublai Kan, di Calvino, non aveva mai visto le Città invisibili di cui Marco Polo gli narrava. Ma  di Chernobyl mi arrivò il suo vento la notte del 26 aprile 1986, svegliandomi con un lancinante mal di testa che mai, prima e dopo, ho provato.
Erano le cinque del mattino più o meno l’ora in cui il vento di là poteva essere arrivato a Roma.
Ora guardo i  29 scatti del fotografo David Schindler che ha voluto tornare in quei luoghi. Chernobyl è una città fossile dentro un passato che non produce futuro né memoria.
Ci si arriva attraverso una strada d’asfalto disconnesso, che corre dritta fino a un  dosso improvviso che sbarra l’orizzonte. Un segnale di pericolo lo precede. Ai lati una vegetazione fitta mangia l’asfalto e dilaga nella foto successiva dove gli stessi alberi, conifere e betulle giganti, assediano alti palazzi dalle finestre senza il riflesso di una sola  luce.  Architetture una volta grandiose, ma tetre e anonime, nate senza uno slancio di fantasia e di vita  che sembrano già un presagio del destino che le segnerà.
Nella sterpaglia la grande ruota di un luna park segna il confine tra il prima e il dopo. Lì, un giorno sono risuonate risate e grida allegre di ragazzi.
Un fiume livido e opaco come piombo fuso scorre  dentro una campagna che sembra non avere fine; alberi grigi, alcuni di un verde denso, con le foglie ripiegate verso il  basso come si nutrissero di altre “irradiazioni”  e  non della luce del sole.
E in sequenza un edificio basso di pietre scure, una palestra, una piscina. Tutti allo stesso modo fantasmi di se stessi. Pietre annerite, invase dalle erbacce. Fredde come mausolei di morte. E ancora, un’aula scolastica, una grande lavagna a parete dove una mano umana ha lasciato la sua traccia; numeri di gesso che ancora resistono, un po’ sfarinati ma leggibili. Per terra, tra rottami e muffe le pagine di un libro per ragazzi con figure di animali fantastici. Un’altra foto: un ufficio dove pile di documenti sopravvivono e resistono al tempo e all’abbandono senza le piaghe che il ferro, il cemento armato e le pareti mostrano  come una lebbra che ancora corrode.
29 foto per una città morta.
Da Chernobyl e dai territori vicini furono evacuate 14 mila persone.
Ma quanti sono morti per quell’orrore nucleare? Quanti, ancora, ne portano i segni e continuano a morire? Nessuno lo dirai mai veramente.
Eppure Chernobyl, come nei peggiori incubi, è ancora abitata. Sono circa mille le persone, quasi tutti anziani, che hanno scelto di tornare nelle loro case contaminate. Davanti, un cartello ne segnala la presenza: “Il proprietario di questa casa vive qui”.
Un filo invisibile annoda il cuore di questa città avvelenata e letale alle mille ombre che, in silenzio e con dignità, aspettano  la fine.


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